L’obbligo di repechage e il licenziamento del lavoratore

Il datore di lavoro può procedere al licenziamento individuale di un dipendente per giustificato motivo oggettivo, e cioè a causa di “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3 L. n. 604/1966). Si tratta in questo caso di un licenziamento c.d. economico, che quindi non riguarda il rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro, ma attiene più che altro a ragioni di organizzazione dell’impresa, come ad esempio la soppressione del posto di lavoro, la scelta di organizzare diversamente i reparti, la riorganizzazione delle mansioni all’interno dell’impresa ecc.

La ragione economica non è però sufficiente: il datore di lavoro deve anche assolvere al c.d. obbligo di repechage, e quindi verificare se il lavoratore possa essere collocato altrove all’interno dell’azienda, svolgendo mansioni equivalenti a quelle cui era addetto in precedenza. Non solo, egli è tenuto anche a verificare se siano disponibili mansioni ragionevolmente inferiori a quelle precedentemente ricoperte, o addirittura con orario di lavoro ridotto. Se la verifica dà esito positivo, l’imprenditore è tenuto ad offrire il posto al lavoratore, mentre se l’esito è negativo, egli può legittimamente procedere al licenziamento.

Il repechage è un istituto di origine giurisprudenziale elaborato con il preciso scopo di tutelare al massimo il posto di lavoro, e pertanto l’onere della prova dell’indisponibilità di altre mansioni, posto in capo all’imprenditore, è particolarmente stringente.
In ogni caso, in attuazione del principio solidaristico presente all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, il lavoratore è comunque tenuto a prestare una leale collaborazione con il datore di lavoro per trovare la soluzione più congrua alla soddisfazione di entrambi gli interessi contrapposti. Sul punto, è esemplare un caso analizzato di recente dalla Suprema Corte (Cass. n. 12244/2023) nel quale i giudici hanno deciso che il rifiuto da parte del lavoratore alla riduzione dell’orario di lavoro può legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il caso di specie riguardava una piccola impresa nella quale, a seguito della riorganizzazione aziendale, si era verificato un esubero di 3 dipendenti; per consentire la conservazione dei posti, l’imprenditore ha offerto la riduzione dell’orario di lavoro, accettata solamente da due dei tre dipendenti; il terzo lavoratore è stato così licenziato per intervenuta soppressione del posto di lavoro, non essendovi più spazio per un dipendente a tempo pieno. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento sostenendo che fosse ritorsivo in quanto il datore aveva voluto punirlo per non aver accettato la riduzione dell’orario di lavoro.
Sia il giudice di primo grado che quello di appello hanno dato ragione all’impresa. Anche la Cassazione, chiamata a pronunciarsi, ha sostenuto le ragioni dell’azienda, ritenendo legittimo il licenziamento. Secondo il ragionamento della Corte, infatti, a seguito del rifiuto alla modifica
dell’orario di lavoro, il licenziamento è comunque legittimo quando il datore di lavoro dimostra:

Si può quindi concludere che, se il datore di lavoro assolve al rigido onere che gli impone di provare l’impossibilità di adottare soluzioni alternative, può legittimamente licenziale il lavoratore che si rifiuta di effettuare il passaggio dall’orario di lavoro full-time a quello part-time.


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Autore: Avv. Giacomo Graziano 11 settembre 2025
Quando un datore di lavoro non corrisponde al lavoratore lo stipendio dovuto oppure lo corrisponde sistematicamente in ritardo o con modalità non corrette, o ancora non provvede al pagamento di tutte le voci dovute della retribuzione, cosa è possibile fare? Il lavoratore può segnalare questa inadempienza all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che ha il compito di fare le opportune verifiche e, se necessario, il potere di emettere sanzioni nei confronti del datore di lavoro. Ma quali compiti ha nello specifico l’Ispettorato Nazionale del Lavoro? Questo ente pubblico svolge un’azione di vigilanza essenziale per garantire la corretta applicazione delle leggi in materia di lavoro, previdenza sociale e sicurezza nei luoghi di lavoro. La sua presenza sul territorio è articolata attraverso una rete di Ispettorati Territoriali, che operano a livello provinciale e regionale, assicurando un controllo capillare e un costante presidio delle condizioni lavorative in tutto il perimetro nazionale. L’Ispettorato del Lavoro ha competenze ampie e diversificate che coprono vari aspetti fondamentali del rapporto di lavoro. Una delle sue principali funzioni è la vigilanza sull’applicazione delle norme relative ai rapporti di lavoro, indipendentemente dalla tipologia contrattuale. Ciò significa che l’Ispettorato è chiamato a verificare il rispetto delle disposizioni di legge in materia di retribuzione, orario di lavoro, ferie, congedi e ogni altro diritto previsto per il lavoratore. Inoltre, assicura anche la corretta applicazione dei contratti collettivi di lavoro, garantendo che le condizioni stabilite nelle negoziazioni tra le parti sociali siano effettivamente rispettate. L’Ispettorato, inoltre, può essere chiamato consensualmente dal lavoratore e dal datore di lavoro in alcuni casi specifici, come ad esempio per sottoscrivere un accordo conciliativo relativo alla risoluzione del rapporto di lavoro. In più, i lavoratori hanno diritto di richiedere all’Ispettorato la costituzione del collegio di conciliazione e arbitrato in merito alle sanzioni disciplinari eventualmente ricevute. Per richiedere l’intervento di questo ente, vi sono varie procedure a seconda del tipo di richiesta. Al fine di agevolare i lavoratori nella segnalazione di presunte violazioni delle normative da parte dei datori di lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha predisposto un Modulo (Modulo INL 31 – Richiesta di intervento ispettivo). All’interno del modulo, devono essere forniti i dati anagrafici del lavoratore, le informazioni relative al datore di lavoro, una descrizione dettagliata delle presunte irregolarità o violazioni riscontrate, avendo cura di includere copia della documentazione che supporta le affermazioni fatte nella denuncia e una fotocopia del documento di identità del denunciante. Una volta completato, il modulo può essere inviato all’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL) competente per la provincia in cui si trova il luogo di lavoro sia per Posta Elettronica Certificata che per posta ordinaria, agli indirizzi già contenuti nel modulo. In definitiva, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro rappresenta una risorsa fonda mentale per i lavoratori. Grazie alla sua azione di vigilanza e controllo, garantisce il rispetto delle normative, tutela i diritti dei lavoratori e contribuisce a creare un mercato del lavoro più equo e sicuro. Se vuoi approfondire la tematica in questione o hai bisogno di una consulenza puoi rivolgerti al nostro studio. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Giacomo Graziano 11 settembre 2025
Qualora un operaio dipendente delle ditte incaricate di eseguire lavori di ristrutturazione si provochi un infortunio, la responsabilità può ricadere sia sull'azienda esecutrice sia sul committente, a seconda delle circostanze. Stando al Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (D.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche), il datore di lavoro della ditta esecutrice è obbligato a rispettare tutte le normative di sicurezza sul lavoro, a fornire ai propri dipendenti i dispositivi di protezione individuale, la formazione e l’informazione adeguata, nonché ad applicare una corretta gestione dei rischi sul luogo di lavoro. Se l'azienda non rispetta queste norme, può essere considerata direttamente responsabile del sinistro. In ogni caso, anche il committente può essere ritenuto responsabile in alcuni casi. In particolare, secondo l’articolo 90 del D.lgs. n. 81/2008, il committente ha l’obbligo di nominare un coordinatore per la sicurezza , sia in fase di progettazione sia in fase di esecuzione, quando ci sono più imprese coinvolte nel cantiere. Secondo la Corte di cassazione, il committente è esonerato dalle proprie responsabilità solo se abbia provveduto non solo alla nomina di un responsabile dei lavori, ma anche al conferimento allo stesso di una delega avente a oggetto gli adempimenti richiesti per l’osservanza delle norme antinfortunistiche (Sent. n. 36869/2009). In mancanza si configura una " culpa in eligendo " ed il conseguente coinvolgimento del committente nelle responsabilità, se da tale inidoneità deriva un fatto lesivo nei confronti dei lavoratori impiegati nell'esecuzione dell’opera. Pertanto, al fine di evitare che il committente dei lavori di edilizia venga esonerato da responsabilità, occorre che nomini un coordinatore dei lavori per la sicurezza. Si ritiene infine possibile e utile combinare queste misure con la stipula di un’assicurazione specifica per coprire eventuali danni o sinistri. In genere, le polizze che possono essere sottoscritte sono quella di responsabilità civile verso terzi (Rct) o quella per danni da lavori edili. Se vuoi approfondire la tematica in questione o hai bisogno di una consulenza puoi rivolgerti al nostro studio. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Sabrina Mellini 11 settembre 2025
La Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 155 del 2025, depositata il 21 luglio, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 27-bis del D.Lgs. 151/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio, anche alla donna lavoratrice, quando la stessa è secondo genitore equivalente in una coppia di due donne, risultanti genitori nei registri dello stato civile. Preme ricordare che la Corte Costituzionale con una recente sentenza la n. 68 del 2025, ha riconosciuto al nato in Italia, a seguito di procreazione medicalmente assistita eterologa legittimamente praticata in uno Stato estero nel rispetto della legge ivi vigente, da una coppia di donne, l’attribuzione dello status di figlio riconosciuto anche dalla cosiddetta madre intenzionale che, insieme alla donna che ha partorito, abbia prestato il consenso alla pratica fecondativa. Prima della suddetta pronuncia, la madre intenzionale, poteva solo “adottare” il figlio/a della propria partner madre biologica, attraverso la così detta stepchild adoption, non potendo riconoscerlo direttamente e farsi registrare come genitore dello stesso nei registri dello stato civile. Ma cosa prevede l’art. 27 -bis del D.Lgs. 151/2001? L’art. 27-bis del D.Lgs. 151/2001 disciplina il così detto Congedo di paternità obbligatorio che viene riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti. In particolare, l’art. 27-bis riconosce al padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi e, per tutto il periodo del congedo, un’indennità giornaliera pari al cento per cento della retribuzione, allo scopo di realizzare una più equa ripartizione della responsabilità genitoriale e di instaurare un precoce legame tra padre e figlio. Il beneficio di cui si tratta può essere fruito negli stessi giorni in cui la madre sta godendo del congedo di maternità ed è compatibile con la fruizione da parte del padre del congedo di paternità alternativo di cui all’art. 28 del d.lgs. n. 151 del 2001 (in caso di morte o grave infermità della madre o di abbandono del minore da parte della madre oppure in caso di affidamento esclusivo del minore al padre) e, in caso di sovrapposizione dei periodi, quello obbligatorio deve essere goduto in un tempo successivo, prevalendo la fruizione del congedo di paternità alternativo. La norma prevede che il diritto a godere dei giorni di congedo di paternità obbligatorio spetti anche ai genitori adottivi o affidatari. La questione di legittimità costituzionale nasceva dal giudizio antidiscriminatorio promosso contro l’INPS da Rete Lenford (associazione impegnata nello sviluppo e diffusione di una cultura del rispetto dei diritti delle persone LGBTI+), a tutela delle coppie di genitori dello stesso sesso, che risultino tali dai registri dello stato civile, a seguito dell’impossibilità da parte della lavoratrice madre “intenzionale” in una coppia omogenitoriale, di accedere al congedo obbligatorio di paternità. Nello specifico, l’associazione nel giudizio in questione, aveva denunciato la condotta discriminatoria dell’INPS che aveva adottato una procedura informatica che non consentiva alle coppie di genitori dello stesso sesso, riconosciute nei registri dello stato civile, di presentare domanda in via telematica sul portale web dell’Istituto, per fruire dei congedi parentali, dei periodi di riposo e delle indennità previsti dal d.lgs. n. 151 del 2001. Il giudice di primo grado aveva accolto la domanda della Rete Lenford, ritenendo discriminatoria la condotta dell’INPS, ordinandogli di modificare il proprio sistema informatico di ricezione delle domande amministrative così da rendere possibile, alle coppie che risultassero genitori dai registri dello stato civile, di inserire i loro codici fiscali a prescindere dal genere, con condanna dell’istituto al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo. Nel Giudizio di secondo grado, instaurato dall’Inps innanzi alla Corte D’Appello di Brescia, la stessa associazione Rete Lenford, proponeva appello incidentale, lamentando che il giudice di primo grado si fosse limitato a ordinare all’INPS la modifica del sistema informatico, senza tuttavia affermare il diritto delle coppie di genitori dello stesso genere, riconosciute nei registri dello stato civile, di fruire dei congedi al pari delle coppie eterosessuali. La categoria asseritamente lesa era quella della coppia omogenitoriale femminile in cui figuravano una madre biologica e una intenzionale. La Corte d’appello di Brescia, investita della causa predetta, sollevava pertanto questione di legittimità costituzionalità in relazione all’art. 27-bis del d.lgs. 151/2001. In particolare, secondo la Corte, la norma sopra citata era palesemente in contrasto con l’art. 3 Cost. (principio di eguaglianza) e l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 4 della direttiva UE 2019/1158, che impone agli Stati membri dell’Unione, di garantire il congedo anche al “secondo genitore equivalente” laddove tale diritto sia stato riconosciuto nell’ordinamento interno. La direttiva 2019/1158/UE, incentrata sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, è stata emanata per incoraggiare una più equa ripartizione delle responsabilità di assistenza tra uomini e donne, nonché per consentire un’instaurazione precoce del legame tra padre e figlio, precisando che, ove il diritto nazionale lo riconosca, lo Stato membro adotta le misure necessarie a garantire che non solo il padre lavoratore, ma anche il secondo genitore equivalente abbia diritto ad un congedo di paternità di dieci giorni lavorativi, da fruire in occasione della nascita del figlio. La Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla questione rimessa dalla Corte di Appello di Brescia, ha precisato che il vincolo genitoriale, non è determinato esclusivamente dalla biologia, ma dalla capacità e volontà di cura, responsabilità e presenza affettiva. Di conseguenza, negare il congedo di paternità obbligatorio alla madre intenzionale, quando già riconosciuta dallo stato civile, costituisce una lesione irragionevole del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e dell’interesse del minore ex artt. 30 e 31 Costituzione. Il principio affermato dalla Corte è la parità tra i genitori nei doveri di cura dei figli, anche quando si tratta di una coppia di genitori dello stesso sesso, purché regolarmente registrata nei registri dello stato civile. La Corte individua nella funzione del congedo che consiste nello stabilire precocemente un legame tra genitore e figlio e promuovere l’equilibrio vita-lavoro, una motivazione che deve valere a prescindere dal sesso e dall’orientamento dei genitori. La sentenza afferma che le coppie omogenitoriali femminili devono poter identificare, accanto alla madre biologica, una figura genitoriale funzionalmente equivalente a quella paterna prevista per legge. Il trattamento riservato alla madre intenzionale, in materia di congedo parentale obbligatorio, deve essere identico a quello riservato al padre lavoratore in coppia eterosessuale. Pertanto, il periodo di congedo obbligatorio di dieci giorni lavorativi spetta ora anche alla lavoratrice, secondo genitore, in una coppia di genitori composta da due donne, risultanti dai registri dello stato civile. La sentenza n. 115/2025 è perfettamente in linea con l’evoluzione del diritto vivente, che riconosce la centralità dell’interesse del minore e la necessità che esso prevalga su modelli familiari tradizionali. Se vuoi approfondire la tematica in questione o hai bisogno di una consulenza puoi rivolgerTi al nostro studio. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Sabrina Mellini 30 luglio 2025
L’ex coniuge divorziato, qualora percepisca un assegno divorzile e non sia passato a nuove nozze, ha diritto ad una quota del TFR percepito dall’altro coniuge, in proporzione al periodo in cui il rapporto di lavoro per il quale è maturato il TFR, ha coinciso con il matrimonio. Questo è quanto statuisce l’art. 12 bis della legge sul divorzio-L. 898/1970- introdotto dall'art. 16 L. 6 marzo 1987, n. 74, che recita testualmente: “ Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'articolo 5 della legge divorzile ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio. ” Ma cos’è il TFR? Il trattamento di fine rapporto è la somma che spetta al lavoratore dipendente nel momento in cui il suo rapporto di lavoro viene meno. Il rapporto infatti può cessare in presenza di dimissioni, licenziamento e raggiungimento dell’età prevista dalla legge per andare in pensione. Se non disposto diversamente dai contratti collettivi la retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR è formata dagli elementi tipici della stessa. Pertanto, nel caso in cui Caia abbia divorziato dal proprio marito e le sia stato riconosciuto con la sentenza di divorzio, un assegno divorzile, come previsto dall’art. 5 della legge 898/1970, la stessa ha il diritto di formulare istanza al Giudice competente per richiedere l’assegnazione di una quota del TFR maturato dall’ex marito, dopo la predetta sentenza di divorzio, purché, all’atto della domanda, Caia risulti ancora titolare dell’ assegno divorzile e purché non sia passata a nuove nozze. Pertanto, il sorgere del diritto alla corresponsione della quota di trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge presuppone che all'atto della cessazione del rapporto di lavoro dell'obbligato, quest'ultimo sia ancora tenuto alla corresponsione dell'assegno di divorzio, che il rapporto di lavoro sia coinciso temporalmente anche solo per un certo periodo con il rapporto coniugale e che l’avente diritto non sia passato a nuove nozze. Il diritto del coniuge alla percezione della quota prevista dal citato art. 12 bis L.898/1970, sorge quando l'indennità relativa al TFR sia matura, al momento o dopo la proposizione della domanda di divorzio. Tale diritto, quindi, non sussiste laddove l'indennità del TFR maturi anteriormente al momento della proposizione della domanda di divorzio (cfr. Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 12175 del 06/06/2011). Il diritto ad una quota del TFR non sorge a favore dell'ex coniuge che sia passato a nuove nozze o che non sia mai stato o non sia più titolare di assegno di divorzio, ad es. per intervenuta modifica delle condizioni del divorzio con revoca dell’assegno divorzile. E quando i coniugi in sede di divorzio si accordano per l’erogazione “ una tantum ”, ossia per la corresponsione in una unica soluzione del mantenimento? Diversamente dall’assegno di divorzio, la corresponsione dell’una tantum inibisce qualsiasi futura pretesa di carattere economico, per cui la parte che la riceve rinuncia a richiedere in futuro un assegno di divorzio, per le sue peggiorate condizioni, così come rinuncia alla quota di pensione di reversibilità e di TFR. Si precisa che il diritto previsto dall’art. 12 bis legge 898/1970 per l’ex coniuge titolare di assegno di divorzio, è azionabile nel momento in cui, cessato il rapporto di lavoro dell'ex coniuge, a questi venga riconosciuto il relativo trattamento legato al TFR, non essendo necessario attendere l’effettiva liquidazione dell’indennità predetta. Ai fini del riconoscimento della quota dell'indennità di fine rapporto spettante all'ex coniuge, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge, va accertata dal Giudice, al momento in cui matura per l'altro ex coniuge, il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso. E per quanto concerne la durata del matrimonio quali sono i parametri di cui il Giudice deve tener conto nel determinare il quantum dovuto all’istante? In base al citato art. 12 bis della L. n. 898 del 1970, spetta alla parte istante un’indennità pari 40% del T.F.R. maturato in favore dell'ex coniuge divorziato con riferimento agli anni in cui il matrimonio è coinciso con il rapporto di lavoro. L'espressa dicitura della norma, riferita agli anni di coincidenza del matrimonio con il rapporto di lavoro, induce a ritenere che il legislatore abbia voluto esplicitamente indicare come base di calcolo del credito spettante al coniuge divorziato l'annualità nella sua interezza, anche in considerazione del sistema di calcolo del trattamento di fine rapporto. Quindi volendo fare un ipotetico calcolo occorrerebbe procedere in questo modo: supponiamo che: - il matrimonio tra Caia e Tizio sia iniziato nel 2000 e sia cessato nel 2020 (anno in cui viene emanata la sentenza di divorzio con riconoscimento a favore di Caia di un assegno divorzile); - il rapporto di lavoro di Tizio sia iniziato nel 1993 e si sia concluso nel 2023 (anno in cui è maturato il diritto dello stesso al TFR); il rapporto di lavoro ha dunque avuto una durata complessiva di 30 anni; -la durata del rapporto di lavoro risulta essere coinciso con il matrimonio per un lasso di tempo pari a 20 anni; -l’importo di TFR maturato in favore di Tizio sia pari ad euro 90.000; -l’istante Caia al momento della proposizione della domanda della quota del TFR dell’ex marito percepisce ancora l’assegno di divorzio e non è passata a nuove nozze; Il Giudice accertato e dichiarato il diritto di Caia a percepire ai sensi dell’art. 12 bis della Legge 898/1970 la quota del 40% del TFR dell’ex coniuge obbligato, dovrebbe calcolare il quantum debeatur in questo modo: dividere l’importo dei 90.000 euro per le annualità lavorative complessive ossia 90.000/30; ogni annualità risulterebbe pari a 3.000 euro, a questo punto dovrebbe moltiplicare i 3000 euro per gli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio che in questo caso ipotetico è pari a 20 anni, quindi sul risultato ottenuto pari ad euro 60.000 calcolare il 40%; il quantum debeatur sarebbe pari ad euro 24.000. Su detta cifra poi andranno calcolati gli interessi dal giorno del dovuto al saldo. Occorre precisare che nell’importo complessivo del TFR non devono essere ricomprese le anticipazioni da parte del datore di lavoro che non spettano al richiedente, poiché trattasi di somme entrate definitivamente nel patrimonio personale dell’obbligato, prima della cessazione del rapporto di lavoro (in tal senso cfr. Cass. Civ. sentenza 29/10/2013 n. 24421). È possibile rinunciare al diritto ex art. 12 bis della legge 898/1970? L’ eventuale rinuncia a un diritto di notevole rilevanza economica come quello previsto dall’art. 12 bis della legge 898/1970, potrebbe avvenire, ma solo in presenza di una contropartita in favore del coniuge rinunciante, affinché sia garantito l'equo contemperamento dei contrapposti interessi delle parti. Se hai bisogno di una consulenza in materia di separazione e di divorzio rivolgiti al nostro studio legale. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Giacomo Graziano 11 luglio 2025
Il Decreto Bollette, formalmente il Decreto-legge 28 febbraio 2025 n. 19, convertito con Legge 24 aprile 2025 n. 60, mira ad una maggiore tutela della fascia più vulnerabile di italiani, non solo riconoscendo un bonus di 200 euro per l’energia per i clienti con un Isee fino a Venticinquemila euro ma anche escludendo la pignorabilità della casa – se unico immobile di proprietà – per debiti per utenze condominiali inferiori ai Cinquemila euro. Questa interessante novità si inserisce in un contesto caratterizzato da importanti rincari energetici e dal conseguente incremento dei casi di morosità trovando il proprio fondamento su alcuni capisaldi di matrice costituzionale come il diritto all’abitazione, desumibile dagli artt. 2 Cost. (solidarietà), e 3 Cost. (eguaglianza sostanziale), dall’art. 42 Cost. (funzione sociale della proprietà) e, in modo più mirato, dall’art. 47 Cost., che incoraggia l’accesso alla proprietà della casa per le famiglie meno abbienti. Seppur lodevole, la normativa, per come è formulata, pone svariati dubbi e problematiche. Infatti, non appare chiaro se la soglia dei Cinquemila euro debba intendersi per singolo creditore, per singola fornitura o come somma globale dei debiti insoluti, né viene definito il concetto di “unico immobile”, sollevando interrogativi nel caso in cui il soggetto disponga di quote indivise di altri beni o di diritti reali parziali. Inoltre, la soglia dei Cinquemila euro potrebbe essere troppo bassa soprattutto alla luce dei rincari energetici e dello sforzo normativo profuso negli ultimi anni per potenziare i sistemi non uni familiari di riscaldamento domestico per ragioni ambientali. E ancora, sarebbe stato il caso di precisare che il provvedimento non riguarda solo la casa ma anche le pertinenze, altrimenti «risulterebbero pignorabili ad esempio box e cantine. Pertanto, la norma necessiterebbe quantomeno di una circolare esplicativa / interpretativa che specifichi criteri, modalità di accertamento e limiti temporali della misura, anche al fine di evitare che proliferi il contenzioso In definitiva, il Decreto Bollette disegna un tentativo di risposta alle disuguaglianze accentuate dalla crisi energetica, ma si espone al rischio di compromettere la certezza del diritto se non sarà accompagnata da una regolamentazione rigorosa, da un’interpretazione giurisprudenziale coerente e da una consapevole gestione degli effetti sul piano contrattuale, condominiale e del mercato dei servizi pubblici essenziali. Avv. Giacomo Graziano
Autore: Avv. Giacomo Graziano 19 giugno 2025
Quando un datore di lavoro non corrisponde al lavoratore lo stipendio dovuto oppure lo corrisponde sistematicamente in ritardo o con modalità non corrette, o ancora non provvede al pagamento di tutte le voci dovute della retribuzione, cosa è possibile fare? Il lavoratore può segnalare questa inadempienza all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che ha il compito di fare le opportune verifiche e, se necessario, il potere di emettere sanzioni nei confronti del datore di lavoro. Ma quali compiti ha nello specifico l’Ispettorato Nazionale del Lavoro? Questo ente pubblico svolge un’azione di vigilanza essenziale per garantire la corretta applicazione delle leggi in materia di lavoro, previdenza sociale e sicurezza nei luoghi di lavoro. La sua presenza sul territorio è articolata attraverso una rete di Ispettorati Territoriali, che operano a livello provinciale e regionale, assicurando un controllo capillare e un costante presidio delle condizioni lavorative in tutto il perimetro nazionale. L’Ispettorato del Lavoro ha competenze ampie e diversificate che coprono vari aspetti fondamentali del rapporto di lavoro. Una delle sue principali funzioni è la vigilanza sull’applicazione delle norme relative ai rapporti di lavoro, indipendentemente dalla tipologia contrattuale. Ciò significa che l’Ispettorato è chiamato a verificare il rispetto delle disposizioni di legge in materia di retribuzione, orario di lavoro, ferie, congedi e ogni altro diritto previsto per il lavoratore. Inoltre, assicura anche la corretta applicazione dei contratti collettivi di lavoro, garantendo che le condizioni stabilite nelle negoziazioni tra le parti sociali siano effettivamente rispettate. L’Ispettorato, inoltre, può essere chiamato consensualmente dal lavoratore e dal datore di lavoro in alcuni casi specifici, come ad esempio per sottoscrivere un accordo conciliativo relativo alla risoluzione del rapporto di lavoro. In più, i lavoratori hanno diritto di richiedere all’Ispettorato la costituzione del collegio di conciliazione e arbitrato in merito alle sanzioni disciplinari eventualmente ricevute. Per richiedere l’intervento di questo ente, vi sono varie procedure a seconda del tipo di richiesta. Al fine di agevolare i lavoratori nella segnalazione di presunte violazioni delle normative da parte dei datori di lavoro, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha predisposto un Modulo (Modulo INL 31 – Richiesta di intervento ispettivo). All’interno del modulo, devono essere forniti i dati anagrafici del lavoratore, le informazioni relative al datore di lavoro, una descrizione dettagliata delle presunte irregolarità o violazioni riscontrate, avendo cura di includere copia della documentazione che supporta le affermazioni fatte nella denuncia e una fotocopia del documento di identità del denunciante. Una volta completato, il modulo può essere inviato all’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL) competente per la provincia in cui si trova il luogo di lavoro sia per Posta Elettronica Certificata che per posta ordinaria, agli indirizzi già contenuti nel modulo. In definitiva, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro rappresenta una risorsa fonda mentale per i lavoratori. Grazie alla sua azione di vigilanza e controllo, garantisce il rispetto delle normative, tutela i diritti dei lavoratori e contribuisce a creare un mercato del lavoro più equo e sicuro.
Autore: Avv. Sabrina Mellini 3 giugno 2025
Cosa succede se l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile intraprende una relazione stabile “ more uxorio “, con un terzo? L’instaurazione da parte dell'ex coniuge, beneficiario di un assegno divorzile, di una stabile convivenza con un altro partner, può incidere sulla revisione dell’assegno divorzile, in riferimento alla rideterminazione del suo ammontare (riduzione dell’importo dello stesso), ovvero alla sua perdita (revoca dell’assegno)? Sappiamo che l'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze; questo è quanto è stabilito dall’art. 5 comma 10 della Legge sul divorzio (L. 898/1970). Ma non vi è una norma (neppure all’interno della recente regolamentazione delle famiglie di fatto, contenuta nella L. n. 76 del 2016) che ci dica quale sia la sorte dell'assegno di divorzio nell’ipotesi che il beneficiario dell’assegno, instauri una convivenza more uxorio . La predetta lacuna è stata colmata dalla giurisprudenza di legittimità. La recente ordinanza della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2024, n. 27043, ha ribadito il principio che la convivenza more uxorio stabile e duratura dell’ex coniuge con un nuovo partner non comporta necessariamente, la perdita automatica e integrale del diritto all'assegno divorzile, stante la componente compensativa dello stesso (riprendendo quanto già affermato nella importantissima sentenza Cass. S.U. 32198/2021). Nell’ordinanza sopra citata è stato ribadito il principio che il Giudice, laddove il soggetto obbligato al versamento dell’assegno divorzile ne chieda la revoca o in subordine la riduzione, con la motivazione che sussiste una convivenza more uxorio stabile e duratura dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno medesimo con un altro partner, dovrà esaminare la situazione nel suo complesso, prima di adottare qualsiasi decisione sulla modifica o sulla revoca dell’assegno e verificare in concreto che la convivenza risulti connotata da precisi elementi. Quali sono questi elementi? Innanzitutto, l’esistenza di un legame affettivo stabile e duraturo, dal quale deve discendere un vero e proprio progetto di vita intrapreso con il terzo; questo progetto deve essere caratterizzato da reciproche contribuzioni economiche e reciproci doveri di assistenza morale e materiale (ad es. comunanza di rapporti bancari o altre patrimonialità significative, la contribuzione al ménage famigliare); l’esistenza di figli. Non è invece decisivo l’elemento della coabitazione. La coabitazione, infatti, assume una valenza meramente indiziaria, ai fini della prova dell'esistenza di un rapporto di convivenza stabile e duraturo, che il Giudice deve valutare nel contesto e in relazione alle circostanze complessive. È necessario, tuttavia, in mancanza dell’elemento della stabile coabitazione, che l’accertamento dell’effettivo e stabile legame di convivenza, sia compiuto in modo rigoroso dal Giudice che dovrà considerare anche gli elementi indiziari rilevanti, purché gravi, precisi e concordanti, come previsto dal primo comma dell’articolo 2729 c.c. La Cassazione Sezioni Unite, nella ben nota sentenza n. 32198/2021, sulla questione della necessarietà o meno della cessazione del diritto all'assegno divorzile per effetto della convivenza stabile dell'ex coniuge con un terzo, ha affermato che:” a) L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno, in relazione alla sua componente compensativa; b) in tema di assegno divorzile in favore dell'ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell'attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa ; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell'apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge. L'assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo". L’assegno di divorzio per la Cassazione ha dunque una duplice componente: assistenziale e compensativa. La componente assistenziale consiste nel fatto che l’assegno di divorzio deve garantire una esistenza dignitosa al coniuge economicamente più debole, qualora non disponga di mezzi attuali adeguati, ovvero non possa procurarseli per ragioni oggettive; la componente compensativa consiste invece nel fatto che l’assegno divorzile deve concorrere a riequilibrare le disparità economiche derivanti dalle scelte di conduzione della vita famigliare, a favore del coniuge che ha sacrificato le proprie aspettative e opportunità lavorative e professionali per favorire la crescita del patrimonio famigliare e di quello personale dell’altro coniuge. Quindi l'instaurarsi di una convivenza dotata dei connotati di stabilità e continuità per la quale è necessario un accertamento giudiziale, non comporta la perdita automatica e integrale dell’assegno divorzile dovendo riconoscersi un quantum al meno in relazione alla componente compensativa dell'assegno stesso, “ perché' essa non ha alcuna connessione con il nuovo progetto di vita, ne' verrebbe in alcun modo all'interno di essa recuperata, in quanto la sua funzione non è sostituita ne' può essere sostituita dalla nuova solidarietà che si costituisce nella coppia di fatto " ( cfr. Cass. Sez. Unite 32198/2021). Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Giacomo Graziano 23 maggio 2025
L’art. 21-bis del D.Lgs. n. 115/2022 (anche conosciuto come Decreto Aiuti Bis) ha modificato il limite di impignorabilità delle pensioni previsto dall’art. 545 cpc. In particolare, la nuova disposizione prevede che il limite di impignorabilità delle pensioni corrisponde al doppio della misura massima mensile stabilita per l’assegno sociale ; ciò vuol dire che le somme dovute a tiolo di pensione possono essere pignorate solo per la somma eccedente il doppio dell’assegno sociale. Questo innalzamento del minino vitale ovviamente rappresenta una buona notizia per tutti quei titolari di pensioni che temono l’attivazione di misure esecutive nei loro confronti da parte dei creditori. Ricordiamo, infatti, che prima della modifica apportata dal Decreto Aiuti Bis, il nostro codice di procedura civile prevedeva come limite di impignorabilità, l’ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale aumentato della metà. Dunque, se un soggetto non onora un debito, il creditore ha facoltà di agire esecutivamente per recuperare le somme dovute rivolgendosi all’autorità giudiziaria e scegliendo se pignorare beni mobili, immobili oppure i crediti vantati da soggetti terzi presso i quali il debitore vanta dei crediti (come, ad esempio, istituti bancari o Pubbliche Amministrazioni). Come è noto, tra le Pubbliche Amministrazioni rientra l’INPS in qualità di ente che eroga trattamenti pensionistici e previdenziali, il quale, non appena riceve un atto di pignoramento da parte del creditore, compiuta una preliminare positiva verifica circa l’effettiva erogazione di somme pensionistiche al debitore indicato nell’atto, procederà ad accantonare le somme dovute fino all’ammontare richiesto, indicando al creditore l’ammontare della quota di pensione accantonabile mensilmente; in buona sostanza, la modifica normativa incide proprio sulla somma che l’INPS mette da parte e custodisce. Se a questo punto il debitore non adempie spontaneamente, il Giudice dell’Esecuzione con l’ordinanza di assegnazione somme intimerà all’INPS di corrispondere al creditore le somme accantonate e di quelle successive fino al raggiungimento dell’importo dovuto. Infine, l’ultimo co. dell’art. 545 cpc ammonisce che se il pignoramento viene eseguito in violazione dei limiti e divieti imposti sarà parzialmente inefficace con possibilità da parte del Giudice di rilevarlo autonomamente oppure a seguito di una opposizione all’esecuzione da parte del debitore.
Autore: Avv. Sabrina Mellini 13 maggio 2025
Cosa succede nel caso in cui il defunto sia titolare di un trattamento pensionistico ed oltre al coniuge superstite, anche l’ex coniuge, già titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, faccia richiesta di una quota della pensione di reversibilità? Preliminarmente occorre esaminare cosa dice la legge sul divorzio (Legge 1/12/1970 n. 898) in relazione alla ripartizione della pensione di reversibilità ed in particolare cosa prevede l’art. 9 comma 2° e 3° della legge in questione. L’art. 9 comma 2° della L. 898/1970 stabilisce che in caso di morte dell'ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge, rispetto al quale è stata pronunciata una sentenza di divorzio (sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio) ha diritto, se non è passato a nuove nozze e sempre che fosse già titolare di un assegno divorzile, alla pensione di reversibilità, purché il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio. Dunque, nel caso in cui non vi sia un coniuge superstite (vedova/vedovo), ma solo un ex coniuge, nei confronti del quale era stata pronunciata una sentenza di divorzio, questi avrà diritto alla pensione di reversibilità purché: a) la sentenza di divorzio gli abbia riconosciuto la spettanza di un assegno divorzile, b) non abbia nel frattempo contratto un nuovo matrimonio, c) il rapporto da cui è derivato il trattamento pensionistico sia sorto anteriormente alla sentenza di divorzio. Precisiamo che per assegno divorzile deve intendersi quanto previsto dall’art. 5 della Legge 898/1970. Con la sentenza di divorzio che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, può disporre l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro (il coniuge più debole), un assegno (assegno divorzile per l’appunto), quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non è in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Ma torniamo al nostro quesito iniziale, cosa accade nella ripartizione della pensione di reversibilità, se oltre all’ ex coniuge del defunto, titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, c’è anche il coniuge superstite? Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ed un ex coniuge del defunto titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, la ripartizione delle quote della predetta pensione ai due soggetti beneficiari, deve essere determinata dal Tribunale competente, tenendo conto della durata del rapporto matrimoniale di entrambi gli aventi diritto; ciò è quanto viene stabilito dall’art. 9, comma 3° della legge 898/1970. Ma il criterio sopra enunciato, ossia la durata del matrimonio, in relazione ad entrambi i beneficiari o aventi diritto, è l’unico criterio di cui il Giudice debba tenere conto? Perché, se è chiaro che qualora ricorrendo la circostanza in cui via siano sia un ex coniuge quanto un coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per poter beneficiare della pensione di reversibilità, il Tribunale competente debba attribuire una quota della pensione di reversibilità anche all’ex coniuge titolare dell’ assegno divorzile, non è altrettanto pacifico quali siano i criteri che in concreto il Giudice dovrà prendere in considerazione per la quantificazione dell’importo spettante all’uno e all’altro beneficiario. La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 419/1999 era già intervenuta sul punto, affermando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 delle legge sul divorzio, nella parte in cui ha previsto che il Giudice debba tenere conto della durata temporale dei due matrimoni, così che all’elemento in questione debba essere riconosciuto un valore “preponderante”, e ciò in quanto per la Consulta tale criterio non deve essere l’unico adottato dal Giudice nella determinazione del quantum spettante agli aventi diritto. Infatti, l’elemento della durata del matrimonio, tenuto conto della finalità solidaristica della pensione di reversibilità, deve essere soppesato necessariamente insieme ad altri ulteriori elementi quali: l’entità dell’assegno divorzile riconosciuto al coniuge divorziato, le condizioni economiche di entrambi i beneficiari, la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali, le condizioni soggettive dei beneficiari. Rientra nell’ambito del prudente apprezzamento del Giudice la determinazione della rilevanza in concreto di tutti gli elementi sopra citati, soprattutto alla luce del fatto che entrambi i beneficiari, ossia sia il coniuge superstite, che l’ex coniuge, perdono il sostengo economico apportato loro in vita dal defunto. Resta comunque fermo il principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’entità dell’assegno divorzile non costituisce un limite legale alla quota di pensione spettante al ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa specifica in tal senso. Allo stesso tempo occorre ricordare che è negata la spettanza del trattamento della pensione di reversibilità all’ex coniuge che abbia visto soddisfatto il proprio diritto all’assegno divorzile, mediante la corresponsione dello stesso, in una unica soluzione (Cfr. Cass. Sez. Unite n. 22434/2018). Tutto quanto sopra enunciato è stato ribadito anche dalla Corte di cassazione nella recente ordinanza n. 5839/2025. Se vuoi approfondire la tematica in questione o hai bisogno di una consulenza puoi rivolgerTi al nostro studio. Avv. Sabrina Mellini
Autore: Avv. Sabrina Mellini 22 aprile 2025
La recente sentenza della Corte Costituzionale pubblicata il 21 marzo scorso, ha sancito che anche le persone singole (che hanno lo stato libero e quindi non sono vincolate dal matrimonio-art 86 c.c.-) possono adottare minori stranieri, residenti all’estero, in situazione di abbandono. La Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 29-bis, comma 1, della Legge numero 184 del 1983 (Diritto del minore ad una famiglia) nella parte in cui non include le persone singole, fra coloro che possono adottare un minore straniero. L’art. 29-bis, comma 1, prevede che « le persone residenti in Italia, che si trovano nelle condizioni prescritte dall’articolo 6 e che intendono adottare un minore straniero residente all’estero, presentano dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza e chiedono che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione ». In particolare, il citato art. 6 stabilisce, al comma 1, che « l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto .” Preme precisare che la questione esaminata dalla Corte Costituzionale con la sentenza sopra citata, attiene unicamente alla condizione della persona che ha lo stato libero, in quanto non è vincolata da un matrimonio (art. 86, primo comma, prima parte, del codice civile). Non rientra, invece, nel perimetro del giudizio della Consulta la condizione della persona che non ha lo stato libero, in quanto è parte di un’unione civile (art. 86, primo comma, seconda parte, cod. civ.). Tale questione non è stato oggetto del giudizio della Corte e, dunque, resta impregiudicata. La decisione della Corte Costituzionale trae origine dalle questioni di illegittimità costituzionale sollevate nello specifico dal Tribunale per i Minorenni di Firenze, il quale evidenziava nella propria ordinanza di rimessione alla Consulta, che la preclusione dell’adozione internazionale alle persone singole, non sarebbe più necessaria in una società democratica, dove ormai è venuta meno, a livello normativo e giurisprudenziale, l’idea che solo la bigenitorialità possa garantire la crescita armoniosa del minore. Ad avviso del Tribunale rimettente, l’esigenza di individuare, nel miglior interesse del minore, un contesto familiare armonioso e stabile non dovrebbe « necessariamente rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio ». La norma sottoposta al giudizio di legittimità costituzionale della Consulta era proprio l’art. 29 bis comma 1 della legge 184/1983 che negava alla persona non coniugata, residente in Italia, la possibilità di presentare la dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero, con il conseguente impedimento per il Giudice competente -Tribunale per i minorenni del luogo di residenza dell’aspirante genitore adottante- di dichiarare la persona non coniugata, idonea all’adozione. La norma de qua violerebbe il fine della tutela dell’interesse del minore, nonché il diritto al rispetto della vita privata della persona singola, inteso come libertà di autodeterminazione, ovvero quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, attraverso la disponibilità all’adozione di un minore straniero. La Corte Costituzionale, dopo una disamina attenta, ha statuito che la legge sull’adozione 184/1983, è illegittima nella parte in cui non consente alla persona non coniugata, residente in Italia, di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale del minore e, conseguentemente al Giudice, di emettere a favore della persona non coniugata, di cui siano state positivamente riscontrate le attitudini genitoriali nel corso dell’istruttoria, il decreto di idoneità all’adozione internazionale del minore medesimo . La Corte Costituzionale ha stabilito che escludere i single dal diritto di adottare un minore straniero è in contrasto, sia con i principi della nostra Costituzione e peculiarmente con gli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, che con i principi sanciti nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e nello specifico con l’articolo 8 della Convenzione predetta. Pertanto, anche i single sono stati ritenuti astrattamente idonei all’adozione internazionale e conseguentemente valutati come persone adeguate ad assicurare ai minori stranieri in stato di adottabilità, un ambiente stabile ed armonioso. Spetterà poi al Giudice competente, valutare in concreto l’idoneità dell’aspirante genitore, nonché la sua effettiva capacità di educare, istruire e mantenere il minore da adottare, tenuto conto altresì della rete famigliare del richiedente. Il desiderio del single di adottare un minore straniero, non potrà dunque più essere inteso come una mera pretesa, ma come un interesse legittimo che merita di essere tutelato dal nostro ordinamento giuridico, in forza del così detto “preminente interesse del minore” ad avere un ambiente stabile ed armonioso dove poter crescere. La Corte Costituzionale ha altresì osservato che, “nell’attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una significativa riduzione delle domande di adozione, il divieto assoluto imposto alle persone singole rischia di « riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso ».” Rimane ferma l’applicabilità alla persona singola delle restanti previsioni di cui all’art. 6 della legge n. 184 del 1983. In particolare, l’adottante persona singola deve rispondere agli altri requisiti, non incompatibili con il suo stato libero, che attengono all’età e al suo «essere affettivamente idoneo e capace di educare, istruire e mantenere i minori che intenda adottare» (comma 2 del citato art. 6). Al minore adottato dalla persona singola sarà riconosciuto l’unico stato di figlio, di cui all’art. 315 cod. civ., al quale implicitamente rimanda l’art. 27 della legge n. 184 del 1983, a sua volta richiamato dall’art. 35, comma 1, della medesima legge. La Corte Costituzionale pertanto ha ritenuto che non debba più sussistere nell’ambito dell’adozione internazionale una preferenza della così detta bigenitorialità, dal momento che essa non risponderebbe più ad un «vincolo giuridico a tutela diretta del minore», ma sarebbe «semplicemente il retaggio di una supposta logica naturalistica secondo una visione dogmatica della nozione di famiglia» che ormai deve ritenersi superata. Dice la Corte Costituzionale nella sentenza 33/2025 che: “ se scopo dell’adozione internazionale è quello di accogliere in Italia minori stranieri abbandonati, residenti all’estero, assicurando loro un ambiente stabile e armonioso, l’insuperabile divieto per le persone singole di accedere a tale adozione non risponde a una esigenza sociale pressante e configura- nell’attuale contesto giuridico-sociale – una interferenza non necessaria in una società democratica .” Se hai bisogno di ulteriori informazioni sulla adozione dei minori, anche internazionale, rivolgiti al nostro studio legale per una consulenza. Avv. Sabrina Mellini