Mobbing, straining e responsabilità del datore di lavoro

Tra il lavoratore e il datore di lavoro, nonché tra gli stessi lavoratori, possono verificarsi vari tipi di dinamiche relazionali; alcune di queste, specie se intervenute tra soggetti posti in rapporto di sovraordinazione-subordinazione all’interno dell’organigramma societario, possono sfociare in comportamenti lesivi per il soggetto gerarchicamente subordinato. In particolare, la psicologia del lavoro e la giurisprudenza hanno tipizzato i fenomeni del mobbing e dello straining.

Mobbing

Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, costituita da sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. 


Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:

  1. l’elemento oggettivo, e quindi la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  2. il danno, e quindi l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; 
  4. l’elemento soggettivo, e quindi l’intento persecutorio che ha animato la condotta.


Tale impostazione è confermata anche dalla giurisprudenza, la quale sostiene che il mobbing lavorativo si configura quando ricorrono sia l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro, sia quello soggettivo, costituito dall’intento persecutorio nei confronti della vittima (Cass., n. 12437/2018; Cass., n. 26684/2017).



Straining

Anche lo straining è una forma di prevaricazione e di persecuzione psicologica attuata sul posto di lavoro nei confronti del lavoratore, ma si caratterizza per una minore intensità rispetto alle condotte che generano il mobbing. In sostanza, lo straining consiste in una forma attenuata di mobbing, e si presenta quando vengono posti in essere comportamenti “stressogeni” specificamente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manca la pluralità delle azioni vessatorie o esse sono limitate nel numero, ma comunque con effetti dannosi rispetto all’interessato.


Secondo la giurisprudenza, nonostante la sua gravità più limitata rispetto al mobbing, anche lo straining deve essere qualificato come fatto ingiusto ai sensi dell’art. 2087 c.c. e quindi può dare origine ad un’obbligazione risarcitoria del datore di lavoro a vantaggio del lavoratore. 


Sul punto, con la recentissima sentenza n. 29101 del 19 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha stabilito che il comportamento del superiore gerarchico, caratterizzato nel caso di specie da “stressante modalità di controllo” e da un singolo episodio di prevaricazione che aveva generato un malore del lavoratore, è un fatto illecito ex art. 2087 c.c. e obbliga al risarcimento del danno. Infatti, secondo il ragionamento della Corte, al di là della qualificazione come mobbing o straining, “quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento”.


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Nell’ipotesi in cui un soggetto riceva un immobile in donazione, potrebbe essere costretto a rapportarsi con aspetti riguardanti la materia della successione ereditaria. Infatti, la legge riserva a favore di determinati soggetti, detti eredi legittimari, ovvero il coniuge, i figli (oppure gli ascendenti del defunto quando non vi sono figli), una quota di eredità detta “quota di legittima” della quale essi non possono essere in alcun modo privati. Ebbene, gli eredi legittimari che ritengono lesa la propria quota di legittima da una o più donazioni fatte il vita dal defunto, hanno la possibilità di intraprendere una causa giudiziaria disciplinata dall'art. 563 cc che consente loro di chiedere la reintegrazione della quota di legittima mediante la riduzione delle donazioni eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre (cosiddetta “quota disponibile”). In particolare: 1. Gli eredi legittimari possono esercitare l’azione di riduzione nei confronti di coloro che hanno ricevuto la donazione (detti donatari) con lo scopo di far dichiarare l’inefficacia (totale o parziale) della donazione che eccede la quota di cui il donante poteva disporre, entro il termine di 10 anni dall’apertura della successione; 2. Sempre gli stessi eredi legittimari potranno introdurre una azione di restituzione dei beni donati nei confronti di terzi acquirenti del bene donato entro 20 anni dalla trascrizione della donazione . Trascorso questo termine l'azione non avrebbe più alcuna efficacia nei confronti dei terzi acquirenti. Legittimati passivi dell’azione di restituzione sono coloro che, nell’eventuale serie dei trasferimenti dell’immobile “ sono proprietari al momento dell’esercizio dell’azione di restituzione ” (Cass. n. 2824/1960). L’acquirente di un bene immobile che subisce entro 20 anni l’azione di restituzione, può liberarsi dall’obbligo di restituzione del bene p agando l’equivalente in denaro (art. 563, co. 3 c.c.). Si tratta di un potere di riscatto riconosciuto dalla legge al terzo acquirente che gli consente di estinguere l’azione stessa. Infatti, attraverso l’esercizio della facoltà di riscatto, il terzo acquirente ha la possibilità di mantenere intatta la titolarità sul bene mediante la corresponsione di una somma di denaro necessaria a reintegrare la quota di legittima del legittimario vittorioso con l’azione di riduzione precedentemente avanzate nei confronti dei donatari. Pertanto, se un soggetto si sta approcciando all’acquisto di una casa derivante da atto di donazione deve considerare che il rischio di non subire azioni civili da parte dei parenti che ritengono di essere lesi nella quota legittima decade: -trascorsi 20 anni dalla trascrizione della donazione, se il donante è ancora in vita e non è stata mossa alcuna opposizione alla donazione stessa, oppure: -dopo 10 anni dalla data del decesso del donante che coincide col momento dell’apertura della successione. Per ulteriori informazioni e chiarimenti su casi specifici, potete contattare lo Studio Baroni & Partners che metterà a disposizione professionisti esperti nella materia.
Licenziamento del lavoratore
Autore: Dott. Simone Puglia 29 nov, 2023
Il datore di lavoro può procedere al licenziamento individuale di un dipendente per giustificato motivo oggettivo, e cioè a causa di “ ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa ” (art. 3 L. n. 604/1966). Si tratta in questo caso di un licenziamento c.d. economico, che quindi non riguarda il rapporto tra il lavoratore e il datore di lavoro, ma attiene più che altro a ragioni di organizzazione dell’impresa, come ad esempio la soppressione del posto di lavoro, la scelta di organizzare diversamente i reparti, la riorganizzazione delle mansioni all’interno dell’impresa ecc. La ragione economica non è però sufficiente : il datore di lavoro deve anche assolvere al c.d. obbligo di repechage, e quindi verificare se il lavoratore possa essere collocato altrove all’interno dell’azienda, svolgendo mansioni equivalenti a quelle cui era addetto in precedenza. Non solo, egli è tenuto anche a verificare se siano disponibili mansioni ragionevolmente inferiori a quelle precedentemente ricoperte, o addirittura con orario di lavoro ridotto. Se la verifica dà esito positivo, l’imprenditore è tenuto ad offrire il posto al lavoratore, mentre se l’esito è negativo, egli può legittimamente procedere al licenziamento. Il repechage è un istituto di origine giurisprudenziale elaborato con il preciso scopo di tutelare al massimo il posto di lavoro, e pertanto l’onere della prova dell’indisponibilità di altre mansioni, posto in capo all’imprenditore, è particolarmente stringente. In ogni caso, in attuazione del principio solidaristico presente all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, il lavoratore è comunque tenuto a prestare una leale collaborazione con il datore di lavoro per trovare la soluzione più congrua alla soddisfazione di entrambi gli interessi contrapposti. Sul punto, è esemplare un caso analizzato di recente dalla Suprema Corte (Cass. n. 12244/2023) nel quale i giudici hanno deciso che il rifiuto da parte del lavoratore alla riduzione dell’orario di lavoro può legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il caso di specie riguardava una piccola impresa nella quale, a seguito della riorganizzazione aziendale, si era verificato un esubero di 3 dipendenti; per consentire la conservazione dei posti, l’imprenditore ha offerto la riduzione dell’orario di lavoro, accettata solamente da due dei tre dipendenti; il terzo lavoratore è stato così licenziato per intervenuta soppressione del posto di lavoro, non essendovi più spazio per un dipendente a tempo pieno. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento sostenendo che fosse ritorsivo in quanto il datore aveva voluto punirlo per non aver accettato la riduzione dell’orario di lavoro. Sia il giudice di primo grado che quello di appello hanno dato ragione all’impresa. Anche la Cassazione, chiamata a pronunciarsi, ha sostenuto le ragioni dell’azienda, ritenendo legittimo il licenziamento. Secondo il ragionamento della Corte, infatti, a seguito del rifiuto alla modifica dell’orario di lavoro, il licenziamento è comunque legittimo quando il datore di lavoro dimostra :
Debiti e crediti, cosa cambia con la Riforma Cartabia
Autore: Avv. Giacomo Graziano 20 nov, 2023
Riforma Cartabia: Nuovi oneri previsti per i creditori dall’art. 543 cpc.
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