Rimozione di autovelox irregolari denominati T-EXSPEED V 2.0
Nel corso dell’estate del 2024, un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Cosenza ha permesso al Gip di ordinare alla Polstrada il sequestro di apparecchiature per il rilevamento della velocità conosciuti con il nome di T-EXSPEED V 2.0 lungo alcuni tratti stradali della provincia cosentina. Sulla scorta di queste indagini, sono state poste sotto sequestro identiche apparecchiature anche in altre regioni italiane, tra cui Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Basilicata, Puglia, Campania, Liguria, Molise e Sicilia.
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In realtà, il problema della legittimità di suddetti apparecchi lungo alcuni tratti di strada del nostro Paese non è nuovo e già da alcuni anni molte Corti territoriali si erano pronunciate in senso favorevole agli utenti destinatari dei verbali di contestazione di violazione del Codice della Strada.
L'art. 142 co. 6 C.d.S., stabilisce che “per la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento”. La norma appare chiara in quanto prevede che soltanto le risultanze di quelle apparecchiature soggette all’omologa sono considerate fonti di prova.
Ed ancora, l’art. 45 co. 6 C.d.S., statuisce che “Nel regolamento sono precisati i segnali, i dispositivi, le apparecchiature e gli altri mezzi tecnici di controllo e regolazione del traffico, nonché quelli atti all'accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni alle norme di circolazione, ed i materiali che per la loro fabbricazione e diffusione, sono soggetti all'approvazione od omologazione da parte del Ministero dei lavori pubblici, previo accertamento delle caratteristiche geometriche, fotometriche, funzionali, di idoneità e di quanto altro necessario. Nello stesso regolamento sono precisate altresì le modalità di omologazione e di approvazione”. Pertanto, a seconda dei casi previsti, si deve procedere ad omologazione oppure ad approvazione, in via evidentemente alternativa.
La distinzione tra approvazione ed omologazione è inoltre individuabile nell’art. 192 reg att C.d.S., al quale l’art. 45 C.d.S. rinvia, perché ne descrive proprio la procedura (Sent. Giudice di Pace di Treviso del 24.05.2021). L’elemento differenziale tra di loro è la rispondenza alle prescrizioni stabilite dal regolamento di attuazione al Codice della Strada: nel caso dell’omologazione è richiesto di accertare la rispondenza e l’efficacia dell’oggetto di cui si chiede l’omologazione
alle prescrizioni stabilite dal regolamento, mentre nel caso dell’approvazione dovrà trattarsi di richiesta relativa ad elementi per i quali il regolamento di attuazione non stabilisce le caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni ed in tal caso il Ministero dei Lavori Pubblici approva il prototipo seguendo, per quanto possibile, la procedura prevista dal comma secondo.
Da ciò ne deriva che soltanto nel caso in cui il regolamento al Codice della Strada stabilisca caratteristiche fondamentali o particolari prescrizioni per dette apparecchiature sarà possibile omologarle. In caso contrario queste ultime saranno solo approvate (Sent. Giudice di Pace di Milano del 11.02.2019; Sent. Giudice di Pace di Milano n. 5454/2021).
In sostanza, l’omologazione richiede un passaggio in più che nella semplice approvazione manca.
L’omologazione ministeriale autorizza la riproduzione in serie del prototipo di un apparecchio appositamente testato in un laboratorio la cui competenza oggi spetta al Ministero per lo Sviluppo Economico (cd MISE). Ha lo scopo di verificare l’efficacia e il corretto funzionamento degli autovelox e la loro rispondenza a determinate caratteristiche tecniche; in pratica, serve a conferire valore legale di prova alle fotografie scattate e alla velocità rilevata. La semplice approvazione, al contrario, risulta essere un procedimento semplificato non richiedendo la comparazione del prototipo con caratteristiche ritenute fondamentali oppure da particolari prescrizioni previse dal regolamento.
Dunque, quale prospettiva ora per gli automobilisti ingiustamente sanzionati? Astrattamente chi ha ricevuto sanzioni a seguito delle segnalazioni degli autovelox T-EXSPEED V 2.0 può impugnare le multe ma anche chi ha già pagato le contravvenzioni elevate tramite tali apparecchi, pur non essendo più nei termini per proporre impugnazione, può attivarsi per tutelare i propri diritti e, una volta concluse le indagini, agire per il risarcimento dei danni subiti.
La questione appare abbastanza delicata soprattutto perché si va profilando un conto salato per le casse degli enti locali e le associazioni dei consumatori sono sul piede di guerra per far accertare eventuali danni erariali e le relative responsabilità; seguiranno sicuramente sviluppi sul tema.
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Cosa succede se l’ex coniuge beneficiario dell’assegno divorzile intraprende una relazione stabile “ more uxorio “, con un terzo? L’instaurazione da parte dell'ex coniuge, beneficiario di un assegno divorzile, di una stabile convivenza con un altro partner, può incidere sulla revisione dell’assegno divorzile, in riferimento alla rideterminazione del suo ammontare (riduzione dell’importo dello stesso), ovvero alla sua perdita (revoca dell’assegno)? Sappiamo che l'obbligo di corresponsione dell'assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze; questo è quanto è stabilito dall’art. 5 comma 10 della Legge sul divorzio (L. 898/1970). Ma non vi è una norma (neppure all’interno della recente regolamentazione delle famiglie di fatto, contenuta nella L. n. 76 del 2016) che ci dica quale sia la sorte dell'assegno di divorzio nell’ipotesi che il beneficiario dell’assegno, instauri una convivenza more uxorio . La predetta lacuna è stata colmata dalla giurisprudenza di legittimità. La recente ordinanza della Corte di Cassazione del 18 ottobre 2024, n. 27043, ha ribadito il principio che la convivenza more uxorio stabile e duratura dell’ex coniuge con un nuovo partner non comporta necessariamente, la perdita automatica e integrale del diritto all'assegno divorzile, stante la componente compensativa dello stesso (riprendendo quanto già affermato nella importantissima sentenza Cass. S.U. 32198/2021). Nell’ordinanza sopra citata è stato ribadito il principio che il Giudice, laddove il soggetto obbligato al versamento dell’assegno divorzile ne chieda la revoca o in subordine la riduzione, con la motivazione che sussiste una convivenza more uxorio stabile e duratura dell’ex coniuge beneficiario dell’assegno medesimo con un altro partner, dovrà esaminare la situazione nel suo complesso, prima di adottare qualsiasi decisione sulla modifica o sulla revoca dell’assegno e verificare in concreto che la convivenza risulti connotata da precisi elementi. Quali sono questi elementi? Innanzitutto, l’esistenza di un legame affettivo stabile e duraturo, dal quale deve discendere un vero e proprio progetto di vita intrapreso con il terzo; questo progetto deve essere caratterizzato da reciproche contribuzioni economiche e reciproci doveri di assistenza morale e materiale (ad es. comunanza di rapporti bancari o altre patrimonialità significative, la contribuzione al ménage famigliare); l’esistenza di figli. Non è invece decisivo l’elemento della coabitazione. La coabitazione, infatti, assume una valenza meramente indiziaria, ai fini della prova dell'esistenza di un rapporto di convivenza stabile e duraturo, che il Giudice deve valutare nel contesto e in relazione alle circostanze complessive. È necessario, tuttavia, in mancanza dell’elemento della stabile coabitazione, che l’accertamento dell’effettivo e stabile legame di convivenza, sia compiuto in modo rigoroso dal Giudice che dovrà considerare anche gli elementi indiziari rilevanti, purché gravi, precisi e concordanti, come previsto dal primo comma dell’articolo 2729 c.c. La Cassazione Sezioni Unite, nella ben nota sentenza n. 32198/2021, sulla questione della necessarietà o meno della cessazione del diritto all'assegno divorzile per effetto della convivenza stabile dell'ex coniuge con un terzo, ha affermato che:” a) L'instaurazione da parte dell'ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all'assegno, in relazione alla sua componente compensativa; b) in tema di assegno divorzile in favore dell'ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell'attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell'assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa ; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell'apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge. L'assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo". L’assegno di divorzio per la Cassazione ha dunque una duplice componente: assistenziale e compensativa. La componente assistenziale consiste nel fatto che l’assegno di divorzio deve garantire una esistenza dignitosa al coniuge economicamente più debole, qualora non disponga di mezzi attuali adeguati, ovvero non possa procurarseli per ragioni oggettive; la componente compensativa consiste invece nel fatto che l’assegno divorzile deve concorrere a riequilibrare le disparità economiche derivanti dalle scelte di conduzione della vita famigliare, a favore del coniuge che ha sacrificato le proprie aspettative e opportunità lavorative e professionali per favorire la crescita del patrimonio famigliare e di quello personale dell’altro coniuge. Quindi l'instaurarsi di una convivenza dotata dei connotati di stabilità e continuità per la quale è necessario un accertamento giudiziale, non comporta la perdita automatica e integrale dell’assegno divorzile dovendo riconoscersi un quantum al meno in relazione alla componente compensativa dell'assegno stesso, “ perché' essa non ha alcuna connessione con il nuovo progetto di vita, ne' verrebbe in alcun modo all'interno di essa recuperata, in quanto la sua funzione non è sostituita ne' può essere sostituita dalla nuova solidarietà che si costituisce nella coppia di fatto " ( cfr. Cass. Sez. Unite 32198/2021). Avv. Sabrina Mellini

L’art. 21-bis del D.Lgs. n. 115/2022 (anche conosciuto come Decreto Aiuti Bis) ha modificato il limite di impignorabilità delle pensioni previsto dall’art. 545 cpc. In particolare, la nuova disposizione prevede che il limite di impignorabilità delle pensioni corrisponde al doppio della misura massima mensile stabilita per l’assegno sociale ; ciò vuol dire che le somme dovute a tiolo di pensione possono essere pignorate solo per la somma eccedente il doppio dell’assegno sociale. Questo innalzamento del minino vitale ovviamente rappresenta una buona notizia per tutti quei titolari di pensioni che temono l’attivazione di misure esecutive nei loro confronti da parte dei creditori. Ricordiamo, infatti, che prima della modifica apportata dal Decreto Aiuti Bis, il nostro codice di procedura civile prevedeva come limite di impignorabilità, l’ammontare corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale aumentato della metà. Dunque, se un soggetto non onora un debito, il creditore ha facoltà di agire esecutivamente per recuperare le somme dovute rivolgendosi all’autorità giudiziaria e scegliendo se pignorare beni mobili, immobili oppure i crediti vantati da soggetti terzi presso i quali il debitore vanta dei crediti (come, ad esempio, istituti bancari o Pubbliche Amministrazioni). Come è noto, tra le Pubbliche Amministrazioni rientra l’INPS in qualità di ente che eroga trattamenti pensionistici e previdenziali, il quale, non appena riceve un atto di pignoramento da parte del creditore, compiuta una preliminare positiva verifica circa l’effettiva erogazione di somme pensionistiche al debitore indicato nell’atto, procederà ad accantonare le somme dovute fino all’ammontare richiesto, indicando al creditore l’ammontare della quota di pensione accantonabile mensilmente; in buona sostanza, la modifica normativa incide proprio sulla somma che l’INPS mette da parte e custodisce. Se a questo punto il debitore non adempie spontaneamente, il Giudice dell’Esecuzione con l’ordinanza di assegnazione somme intimerà all’INPS di corrispondere al creditore le somme accantonate e di quelle successive fino al raggiungimento dell’importo dovuto. Infine, l’ultimo co. dell’art. 545 cpc ammonisce che se il pignoramento viene eseguito in violazione dei limiti e divieti imposti sarà parzialmente inefficace con possibilità da parte del Giudice di rilevarlo autonomamente oppure a seguito di una opposizione all’esecuzione da parte del debitore.

Cosa succede nel caso in cui il defunto sia titolare di un trattamento pensionistico ed oltre al coniuge superstite, anche l’ex coniuge, già titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, faccia richiesta di una quota della pensione di reversibilità? Preliminarmente occorre esaminare cosa dice la legge sul divorzio (Legge 1/12/1970 n. 898) in relazione alla ripartizione della pensione di reversibilità ed in particolare cosa prevede l’art. 9 comma 2° e 3° della legge in questione. L’art. 9 comma 2° della L. 898/1970 stabilisce che in caso di morte dell'ex coniuge e in assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, il coniuge, rispetto al quale è stata pronunciata una sentenza di divorzio (sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio) ha diritto, se non è passato a nuove nozze e sempre che fosse già titolare di un assegno divorzile, alla pensione di reversibilità, purché il rapporto da cui trae origine il trattamento pensionistico sia anteriore alla sentenza di divorzio. Dunque, nel caso in cui non vi sia un coniuge superstite (vedova/vedovo), ma solo un ex coniuge, nei confronti del quale era stata pronunciata una sentenza di divorzio, questi avrà diritto alla pensione di reversibilità purché: a) la sentenza di divorzio gli abbia riconosciuto la spettanza di un assegno divorzile, b) non abbia nel frattempo contratto un nuovo matrimonio, c) il rapporto da cui è derivato il trattamento pensionistico sia sorto anteriormente alla sentenza di divorzio. Precisiamo che per assegno divorzile deve intendersi quanto previsto dall’art. 5 della Legge 898/1970. Con la sentenza di divorzio che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, può disporre l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro (il coniuge più debole), un assegno (assegno divorzile per l’appunto), quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non è in grado di procurarseli per ragioni oggettive. Ma torniamo al nostro quesito iniziale, cosa accade nella ripartizione della pensione di reversibilità, se oltre all’ ex coniuge del defunto, titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, c’è anche il coniuge superstite? Qualora esista un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità, ed un ex coniuge del defunto titolare dell’assegno di divorzio e mai passato a nuove nozze, la ripartizione delle quote della predetta pensione ai due soggetti beneficiari, deve essere determinata dal Tribunale competente, tenendo conto della durata del rapporto matrimoniale di entrambi gli aventi diritto; ciò è quanto viene stabilito dall’art. 9, comma 3° della legge 898/1970. Ma il criterio sopra enunciato, ossia la durata del matrimonio, in relazione ad entrambi i beneficiari o aventi diritto, è l’unico criterio di cui il Giudice debba tenere conto? Perché, se è chiaro che qualora ricorrendo la circostanza in cui via siano sia un ex coniuge quanto un coniuge superstite aventi entrambi i requisiti per poter beneficiare della pensione di reversibilità, il Tribunale competente debba attribuire una quota della pensione di reversibilità anche all’ex coniuge titolare dell’ assegno divorzile, non è altrettanto pacifico quali siano i criteri che in concreto il Giudice dovrà prendere in considerazione per la quantificazione dell’importo spettante all’uno e all’altro beneficiario. La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 419/1999 era già intervenuta sul punto, affermando infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 delle legge sul divorzio, nella parte in cui ha previsto che il Giudice debba tenere conto della durata temporale dei due matrimoni, così che all’elemento in questione debba essere riconosciuto un valore “preponderante”, e ciò in quanto per la Consulta tale criterio non deve essere l’unico adottato dal Giudice nella determinazione del quantum spettante agli aventi diritto. Infatti, l’elemento della durata del matrimonio, tenuto conto della finalità solidaristica della pensione di reversibilità, deve essere soppesato necessariamente insieme ad altri ulteriori elementi quali: l’entità dell’assegno divorzile riconosciuto al coniuge divorziato, le condizioni economiche di entrambi i beneficiari, la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali, le condizioni soggettive dei beneficiari. Rientra nell’ambito del prudente apprezzamento del Giudice la determinazione della rilevanza in concreto di tutti gli elementi sopra citati, soprattutto alla luce del fatto che entrambi i beneficiari, ossia sia il coniuge superstite, che l’ex coniuge, perdono il sostengo economico apportato loro in vita dal defunto. Resta comunque fermo il principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’entità dell’assegno divorzile non costituisce un limite legale alla quota di pensione spettante al ex coniuge, data la mancanza di qualsiasi indicazione normativa specifica in tal senso. Allo stesso tempo occorre ricordare che è negata la spettanza del trattamento della pensione di reversibilità all’ex coniuge che abbia visto soddisfatto il proprio diritto all’assegno divorzile, mediante la corresponsione dello stesso, in una unica soluzione (Cfr. Cass. Sez. Unite n. 22434/2018). Tutto quanto sopra enunciato è stato ribadito anche dalla Corte di cassazione nella recente ordinanza n. 5839/2025. Se vuoi approfondire la tematica in questione o hai bisogno di una consulenza puoi rivolgerTi al nostro studio. Avv. Sabrina Mellini

La recente sentenza della Corte Costituzionale pubblicata il 21 marzo scorso, ha sancito che anche le persone singole (che hanno lo stato libero e quindi non sono vincolate dal matrimonio-art 86 c.c.-) possono adottare minori stranieri, residenti all’estero, in situazione di abbandono. La Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 29-bis, comma 1, della Legge numero 184 del 1983 (Diritto del minore ad una famiglia) nella parte in cui non include le persone singole, fra coloro che possono adottare un minore straniero. L’art. 29-bis, comma 1, prevede che « le persone residenti in Italia, che si trovano nelle condizioni prescritte dall’articolo 6 e che intendono adottare un minore straniero residente all’estero, presentano dichiarazione di disponibilità al tribunale per i minorenni del distretto in cui hanno la residenza e chiedono che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione ». In particolare, il citato art. 6 stabilisce, al comma 1, che « l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto .” Preme precisare che la questione esaminata dalla Corte Costituzionale con la sentenza sopra citata, attiene unicamente alla condizione della persona che ha lo stato libero, in quanto non è vincolata da un matrimonio (art. 86, primo comma, prima parte, del codice civile). Non rientra, invece, nel perimetro del giudizio della Consulta la condizione della persona che non ha lo stato libero, in quanto è parte di un’unione civile (art. 86, primo comma, seconda parte, cod. civ.). Tale questione non è stato oggetto del giudizio della Corte e, dunque, resta impregiudicata. La decisione della Corte Costituzionale trae origine dalle questioni di illegittimità costituzionale sollevate nello specifico dal Tribunale per i Minorenni di Firenze, il quale evidenziava nella propria ordinanza di rimessione alla Consulta, che la preclusione dell’adozione internazionale alle persone singole, non sarebbe più necessaria in una società democratica, dove ormai è venuta meno, a livello normativo e giurisprudenziale, l’idea che solo la bigenitorialità possa garantire la crescita armoniosa del minore. Ad avviso del Tribunale rimettente, l’esigenza di individuare, nel miglior interesse del minore, un contesto familiare armonioso e stabile non dovrebbe « necessariamente rinvenirsi nella struttura familiare composta da una coppia unita nel vincolo del matrimonio ». La norma sottoposta al giudizio di legittimità costituzionale della Consulta era proprio l’art. 29 bis comma 1 della legge 184/1983 che negava alla persona non coniugata, residente in Italia, la possibilità di presentare la dichiarazione di disponibilità ad adottare un minore straniero, con il conseguente impedimento per il Giudice competente -Tribunale per i minorenni del luogo di residenza dell’aspirante genitore adottante- di dichiarare la persona non coniugata, idonea all’adozione. La norma de qua violerebbe il fine della tutela dell’interesse del minore, nonché il diritto al rispetto della vita privata della persona singola, inteso come libertà di autodeterminazione, ovvero quale interesse a poter realizzare la propria aspirazione alla genitorialità, attraverso la disponibilità all’adozione di un minore straniero. La Corte Costituzionale, dopo una disamina attenta, ha statuito che la legge sull’adozione 184/1983, è illegittima nella parte in cui non consente alla persona non coniugata, residente in Italia, di presentare domanda per la dichiarazione di idoneità all’adozione internazionale del minore e, conseguentemente al Giudice, di emettere a favore della persona non coniugata, di cui siano state positivamente riscontrate le attitudini genitoriali nel corso dell’istruttoria, il decreto di idoneità all’adozione internazionale del minore medesimo . La Corte Costituzionale ha stabilito che escludere i single dal diritto di adottare un minore straniero è in contrasto, sia con i principi della nostra Costituzione e peculiarmente con gli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, che con i principi sanciti nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e nello specifico con l’articolo 8 della Convenzione predetta. Pertanto, anche i single sono stati ritenuti astrattamente idonei all’adozione internazionale e conseguentemente valutati come persone adeguate ad assicurare ai minori stranieri in stato di adottabilità, un ambiente stabile ed armonioso. Spetterà poi al Giudice competente, valutare in concreto l’idoneità dell’aspirante genitore, nonché la sua effettiva capacità di educare, istruire e mantenere il minore da adottare, tenuto conto altresì della rete famigliare del richiedente. Il desiderio del single di adottare un minore straniero, non potrà dunque più essere inteso come una mera pretesa, ma come un interesse legittimo che merita di essere tutelato dal nostro ordinamento giuridico, in forza del così detto “preminente interesse del minore” ad avere un ambiente stabile ed armonioso dove poter crescere. La Corte Costituzionale ha altresì osservato che, “nell’attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una significativa riduzione delle domande di adozione, il divieto assoluto imposto alle persone singole rischia di « riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso ».” Rimane ferma l’applicabilità alla persona singola delle restanti previsioni di cui all’art. 6 della legge n. 184 del 1983. In particolare, l’adottante persona singola deve rispondere agli altri requisiti, non incompatibili con il suo stato libero, che attengono all’età e al suo «essere affettivamente idoneo e capace di educare, istruire e mantenere i minori che intenda adottare» (comma 2 del citato art. 6). Al minore adottato dalla persona singola sarà riconosciuto l’unico stato di figlio, di cui all’art. 315 cod. civ., al quale implicitamente rimanda l’art. 27 della legge n. 184 del 1983, a sua volta richiamato dall’art. 35, comma 1, della medesima legge. La Corte Costituzionale pertanto ha ritenuto che non debba più sussistere nell’ambito dell’adozione internazionale una preferenza della così detta bigenitorialità, dal momento che essa non risponderebbe più ad un «vincolo giuridico a tutela diretta del minore», ma sarebbe «semplicemente il retaggio di una supposta logica naturalistica secondo una visione dogmatica della nozione di famiglia» che ormai deve ritenersi superata. Dice la Corte Costituzionale nella sentenza 33/2025 che: “ se scopo dell’adozione internazionale è quello di accogliere in Italia minori stranieri abbandonati, residenti all’estero, assicurando loro un ambiente stabile e armonioso, l’insuperabile divieto per le persone singole di accedere a tale adozione non risponde a una esigenza sociale pressante e configura- nell’attuale contesto giuridico-sociale – una interferenza non necessaria in una società democratica .” Se hai bisogno di ulteriori informazioni sulla adozione dei minori, anche internazionale, rivolgiti al nostro studio legale per una consulenza. Avv. Sabrina Mellini

L’accesso abusivo ad un sistema informatico è previsto dal nostro codice penale come reato e disciplinato ai sensi dell’art. 615 ter c.p. Viene punito con la reclusione fino a tre anni chi abusivamente, si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da misure di sicurezza, ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo. Ciò che tale articolo protegge, secondo un Sentenza della Cassazione Penale n. 42021 del 2012, è il cosiddetto “domicilio digitale/informatico”, cioè quello spazio digitale (ideale e fisico) in cui sono contenuti i dati e le informazioni informatiche riguardanti la persona titolare di quel bene e le sue attività. La condotta punita riguarda sia l’introduzione abusiva in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza; sia l’azione di permanere all’interno del sistema informatico violato, senza alcuna autorizzazione e/o titolarità e contro la volontà, espressa o tacita, del titolare del sistema medesimo, e/o, seppur con autorizzazione, ma per compiere attività e azioni non autorizzate, in violazione alle eventuali prescrizioni del titolare del sistema e comunque estranee alle proprie mansioni. Quindi viene punito non solo chi si introduca in un sistema informatico non suo senza averne alcun diritto e/o autorizzazione, ma anche chi, pur avendo una qualsivoglia autorizzazione, metta in atto attività e azioni che non rientrano nei propri compiti e che non seguano le indicazioni del titolare del sistema informatico che, come tale, ha diritto di escluderlo. Questa tipologia di reato ha però subìto nel corso degli anni diverse interpretazioni giurisprudenziali da parte della Suprema Corte. In un primo momento si è data rilevanza, ai fini della fattispecie di reato, al solo accesso al sistema informatico da parte di soggetto non autorizzato. Successivamente, la giurisprudenza della Suprema Corte ha cominciato a dare rilevanza penale anche all’attività di mantenimento del reo all’interno del sistema informatico non suo e violato. Tale orientamento si è cristallizzato e ha incluso, il comma 2, n. 1 dell'art. 615 ter c.p, affermando che il reato in esame si configura quando " il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio ", ricomprendendo in questo modo qualsiasi attività di accesso che non rientri e che non sia riconducibile alla funzione propria di pubblico rilievo. Nel 2022, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con Sent. n. 15629 del 21/01/2022, attribuisce rilevanza penale al solo profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema da parte del reo, accogliendo il principio sancito dalle Sez. Unite Casani – Sent. n. 4694/2011), in base al quale viene data rilevanza alla “condotta di colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso, …” mentre rimangono privi di rilievo, ai fini della configurazione del reato: “gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l'ingresso nel sistema". Secondo questo orientamento giurisprudenziale sembrerebbero avere rilievo ai fini penali il solo abuso oggettivo dell’accesso e della permanenza nel caso in cui il reo sia un soggetto per così dire privato; mentre rileverebbe anche l’aspetto soggettivo del reato di accesso e permanenza ad un sistema informatico, nel caso in cui il reo sia un pubblico ufficiale. Di recente la Suprema Corte ha pronunciato una sentenza la n. 40295 del 31/10/2024, in cui fornisce un vero e proprio ampliamento della fattispecie di reato prevista e punita dall’art. 615 tec c.p. La Cassazione ha ampliato il concetto di “accesso abusivo” al sistema informatico, riprendendo un concetto già introdotto dalla Corte d’Appello di Firenze, il cosiddetto “accesso disfunzionale”, ovvero l’accesso caratterizzato dall’utilizzo improprio di credenziali/password/chiavi di accesso che seppur legittime vengono utilizzate per finalità non autorizzate. Ecco quindi che, se in precedenza le finalità e gli scopi non erano stati ritenuti rilevanti ai fini della configurazione del reato, adesso con una recentissima sentenza dell’ottobre 2024, la Cassazione, ritiene rilevante tale aspetto del reato, concentrandosi sulle dinamiche interne alle organizzazioni aziendali. Il titolare/dominus del sistema informatico è l’unico a decidere di escludere e/o autorizzare per determinate finalità l’accesso al proprio sistema informatico altri soggetti. Il reato si configura, quindi, anche in presenza di un accesso interno, se questo avviene violando le direttive del datore di lavoro o superando i limiti impliciti dettati dall'organizzazione aziendale. Ecco perché si consiglia sempre che all’interno dell’organizzazione aziendale siano utilizzati regolamenti dei sistemi informatici, regolamenti disciplinari, best practices organizzative, mansionari, contratti di lavoro idonei. La Corte sottolinea ancora una volta come l’accesso non giustificato sia di per sé reato, poiché consente al reo di accedere a dati e informazioni protette senza autorizzazione. Le credenziali di accesso al proprio sistema informatico sono “personali” e come tali vanno protette e non fornite ad altri soggetti. Né chi riveste ruoli apicali all’interno di un’organizzazione è giustificato ad avere le credenziali personali dei suoi sottoposti, né può accedere al sistema informatico dei suoi sottoposti, per il solo fatto di essere gerarchicamente superiore. Si consiglia di prevedere e mettere in atto delle procedure di accesso e dismissione ai sistemi informatici aziendali, tutti nessuno escluso e che sono da considerarsi “strumenti aziendali”, prevedendo ad es. in caso di necessità (assenza del dipendente e/o cessazione del rapporto di lavoro) che sia l’Amministratore di Sistema aziendale ad accedere ai predetti sistemi per estrapolare dati ed informazioni aziendali, necessari per l’ordinaria operatività aziendale. Sono quindi determinanti le direttive aziendali e il rispetto di queste ultime da parte dei dipendenti. C’è da precisare che anche quando l’accesso abusivo ad un sistema informatico non sia punibile come reato, la responsabilità civile è confermata. Per cui se gli accessi ai sistemi informatici all’interno di un’azienda sono regolamentati, le direttive ben formalizzate e disciplinate anche in aderenza ai contratti di lavoro, il personale è formato ed istruito su queste direttive e ha preso ben visione delle medesime, sono adottate misure di sicurezza rigorose, una violazione in tal senso, anche da parte dei soggetti con ruoli apicali, che devono essere i primi a rispettare le regole aziendali, determina conseguenze sul piano civile e disciplinare con sollevazione di contestazioni disciplinari e richieste risarcitorie. Avv. Vincenza D’Anna

Con il termine stress si intende una risposta psicologica e fisiologica adattativa a situazioni in cui l’individuo non si sente in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative dell’ambiente, comportando modificazioni fisiologiche, cognitive e comportamentali; lo stress di per sé non è configurabile come una patologia, piuttosto va inteso come uno “stimolo” volto al superamento di un compito o sfida da parte dell’essere umano. Diviene patologico nel momento in cui le richieste/sollecitazioni esterne superano le capacità, risorse ed esigenze dell’individuo innescando delle reazioni avverse, più o meno invalidanti, che se protratte nel tempo, possono assumere connotazioni patologiche. Nel caso in cui il nesso causale sia riconducibile al lavoro, allora viene comunemente utilizzata la definizione “stress lavoro-correlato”. Tra le cause determinanti lo stress lavoro-correlato ritroviamo i fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli aspetti relativi alla progettazione, organizzazione e gestione del lavoro, nonché ai rispettivi contesti ambientali e sociali, che dispongono del potenziale per dar luogo a danni di tipo fisico, sociale o psicologico. È indubbio che gli aspetti individuali possano incidere direttamente o indirettamente sulle modalità di esposizione e impatto dei rischi per la salute e sicurezza in generale, e di quelli psicosociali in particolare, tra questi l’appartenenza al “genere” rappresenta ancora oggi uno dei fattori principali di discriminazione. Questa maggiore consapevolezza, nel nostro Paese, si concretizza nel D.lgs. n. 81/2008, art. 28, co. 1, all’interno quale si riporta che la valutazione dei rischi deve riferirsi a tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro correlato, secondo i contenuti dell’Accordo europeo dell’ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi. Il rischio stress lavoro-correlato e gli altri rischi psicosociali rappresentano sempre di più una minaccia per la salute e sicurezza dei lavoratori, con una maggior esposizione del genere femminile. Purtroppo, all’interno dell’organizzazione di lavoro ancora oggi si evidenziano delle differenze rispetto all’appartenenza di genere: le donne, infatti, ricoprirebbero, proporzionalmente, ruoli con minore responsabilità e autonomia, sarebbero più esposte a lavori precari, monotoni e ripetitivi e impiegate di meno in attività lavorative che richiedono problem solving e creatività, infine sarebbero maggiormente evidenti discrepanze retributive e nello sviluppo di carriera. Altro aspetto da considerare è anche quello rappresentato dalla discriminazione, violenza e molestie nei luoghi di lavoro che non accenna a diminuire. La violenza nei luoghi di lavoro può essere definita come tutti quei comportamenti che si verificano quando uno o più individui vengono aggrediti in contesto di lavoro, con azioni possono essere fisiche o psicologiche con ricadute sull’individuo rilevanti. Le molestie vengono intese come quelle azioni che si verificano quando uno o più individui subiscono ripetutamente e deliberatamente abusi, minacce e/o umiliazioni in contesto di lavoro; esse comprendono, inoltre, tutti quei comportamenti offensivi o espressioni di disprezzo basati su stereotipi riguardanti persone con determinate caratteristiche individuali. Spesso assumono una connotazione sessuale, ovvero riguardano avances verbali e/o fisiche indesiderate, dichiarazioni dispregiative sessualmente esplicite e discriminazioni che impattano negativamente sulla dignità della persona e interferiscono nelle prestazioni lavorative. Le conseguenze sono allarmanti e hanno portato molte donne a cambiare volontariamente lavoro o a rinunciare alla carriera; altre sono state licenziate o messe in cassa integrazione o non sono state assunte. Gli esiti, derivanti dall’esposizione al rischio stress lavoro correlato, sulla salute e sulla sicurezza sono ormai da tempo evidenti e oggetto di studio e monitoraggio. La prolungata esposizione ai fattori di rischio, l’intensità di tale esposizione, le caratteristiche individuali e i fattori di protezione individuali e organizzativi concorrono, infatti, all’insorgenza o meno di conseguenze psicofisiche negative, anche invalidanti. La differenza di genere ricopre inoltre un ruolo determinante anche in merito agli esiti sulla salute, infatti, le donne sarebbero più esposte a disturbi psicofisici come, ad esempio, quelli ansioso-depressivi e a manifestazioni psicosomatiche come, ad esempio, le reazioni cutanee, disturbi muscoloscheletrici e disturbi gastroenterici, oltre allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare, compromissione del sonno e della sfera affettiva. Un approccio consapevole al tema della salute e sicurezza sul lavoro non può prescindere dal riconoscimento delle specifiche caratteristiche legate alle differenze di genere e, sebbene l’attenzione del Paese al riguardo sia cresciuta, risulta avere tuttora carattere parziale e disomogeneo. Pertanto, investire sulla salute e sicurezza dei lavoratori anche in ottica di genere, adoperandosi sullo sviluppo di una cultura improntato sulla salute e sicurezza, con un sistema formativo integrato, congiuntamente a politiche e iniziative da parte delle istituzioni e delle organizzazioni, significa investire non solo sul benessere delle persone operanti ma anche sull’efficacia ed efficienza delle aziende e del Paese. Avv. Giacomo Graziano

Spesso ci viene chiesto se sia legittimo registrare una conversazione e se non sia una violazione della privacy dei nostri interlocutori che vengono registrati. Ebbene, a riguardo la Corte di Cassazione si è già pronunciata in passato e proprio in relazione agli aspetti privacy, lo fa anche con una Ordinanza recente del settembre 2024, n. 24797/2024, il cui oggetto del contendere è una registrazione effettuata da un dipendente e relativa ad una conversazione avuta dallo stesso con i rappresentanti dell’azienda. Nel procedimento viene coinvolta anche l’Autorità Garante della Privacy, che in sede di reclamo proposto dall’Azienda, aveva respinto la richiesta di cancellazione della predetta registrazione, in quanto si trattava di operazioni di trattamento svolte per esclusive finalità di contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. L’Azienda propone ricorso dinanzi al Tribunale di Venezia che pronuncia una sentenza in cui statuisce che il trattamento dei dati è avvenuto in violazione dei principi di cui all’art. 5 del GDPR, in quanto la registrazione è stata eseguita senza che al momento vi fossero esigenze difensive dell’autore della registrazione e che sebbene esistente un contenzioso dei dipendenti verso l’azienda, la registrazione è stata conservata e ceduta ai colleghi dall’autore a distanza di anni per intentare le cause all’azienda. Il dipendente presenta ricorso in Cassazione. I dirigenti presentano controricorso e così anche il Garante promuove controricorso. Ovviamente tutti con motivi diversi. La Suprema Corte, letti, ricorso e controricorsi, emette Ordinanza così motivata: Vengono risolte dapprima le questioni preliminari relative sull’ammissibilità del ricorso incidentale del Garante ritenuto tardivo e ammesso dalla Corte con rigetto delle eccezioni dei dirigenti aziendali e con precisazione del ruolo pubblico ed amministrativo della predetta Autorità di controllo che mira a tutelare interessi pubblici e ad assicurare la corretta applicazione della normativa vigente; Nel merito dei motivi di ricorso: a) Il ricorrente principale invoca, con il primo motivo di ricorso, l’applicazione dell’art. 5 del D.lgs. 196/2003, rilevando che sotto la vigenza di questa normativa (fino al settembre 2018) si era formata una giurisprudenza uniforme, secondo cui il soggetto che effettua questo trattamento dei dati non è soggetto all’applicazione di queste disposizioni normative se non sono destinate alla diffusione sistematica, ma conservano il carattere personale. La registrazione, infatti, era stata effettuata nel novembre 2016, per cui era d’obbligo l’applicazione nel Codice Privacy e il carattere professionale della registrazione non determina come finalità quella diffusione sistematica dei dati ma il trattamento rimane personale. b) Il ricorrente, con il secondo motivo di ricorso, eccepisce la violazione degli artt. 5,6,9,21 del Regolamento UE – GDPR 2016/679 che ha rivoluzionato e modificato il Codice Privacy e che ha permesso modifiche ed integrazioni a quest’ultimo grazie all’emanazione del D. Lgs. 101/2018. Infatti, ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. d), il ricorrente sostiene erroneo il giudizio del Tribunale di Venezia perché la registrazione avvenuta tra presenti è legittima così come è legittima la consegna a terzi per il perseguimento di un legittimo interesse a tutela di un diritto fondamentale dell’interessato, ovvero la “difesa in giudizio”. Tale motivo di ricorso veniva avallato in toto dalla difesa del Garante. c) Con il terzo motivo, il ricorrente lamentava il fatto che il Tribunale non avesse ascoltato integralmente la registrazione; d) Con il quarto motivo, il ricorrente lamentava l’erronea applicazione da parte del Tribunale del decreto ministeriale di regolamentazione degli onorari e spese legali di giudizio. La Corte ritiene i primi tre motivi fondati e statuisce che la sentenza del Tribunale è errata in quanto dava una lettura erronea della normativa applicabile al caso oggetto del procedimento e cassa il provvedimento. La giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che il diritto di difesa in giudizio consente, ai sensi dell’art. 24 lett. f) del D. Lgs. 196/2003, di prescindere dal consenso della parte interessata, a condizione che i dati siano trattati e conservati per la specifica finalità – della difesa in giudizio – e per tutte quelle attività anche precedenti al giudizio, ma prodromiche all’instaurazione dello stesso (Cass. 33809 del 12/11/2021). La liceità del trattamento non è relativa al chi o al come, ma rileva la finalità che è quella di difendere un diritto fondamentale dell’interessato. Per cui gli organi e le autorità giudiziarie devono comporre le esigenze di riservatezza con quelle del giusto processo (Cass. 9314 del 04/04/2023). Se poi si guarda ai testi degli artt. 4 e 47 del GDPR, nonché al Considerando 20 del medesimo regolamento, non si può che aderire alla motivazione fornita dalla Corte di Cassazione. La stessa Corte di Giustizia Europea, con sentenza del 02/03/2023, stabilisce che nel caso in cui dati personali di terzi vengono utilizzati in un giudizio, dovrà essere il Giudice nazionale a ponderare il caso specifico con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità. In conclusione, la giurisprudenza della Suprema Corte è consolidata nel ritenere che non è soggetta a comunicazione preventiva e a preventivo consenso l’attività di registrazione di una conversazione tra soggetti presenti per l’utilizzo in sede giudiziaria a tutela di diritti ed interessi fondamentali per l’interessato. Tali principi erano sanciti nel vecchio Codice Privacy ma rimangono forti e vigenti anche nel Nuovo GDPR 2016/679 entrato in vigore nel maggio 2018. Per cui è assolutamente legittimo il trattamento dei dati personali oggetto di una registrazione tra presenti, senza raccolta di consenso degli interessati, purché effettuato nel rispetto del criterio di “minimizzazione” ove sia indispensabile per la tutela di interessi vitali della persona che li divulga o della sua famiglia (Cass. n. 9922 del 28/03/2022). Si allega Ordinanza Cass. n. 24797/2024 Avv. Vincenza D’Anna

Innanzitutto, occorre precisare cosa debba intendersi per conviventi di fatto. La legge n. 76/2016, meglio conosciuta come legge Cirinnà, definisce i conviventi, quali persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. Se il convivente defunto risulta essere stato proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa, per due anni, ovvero per un periodo pari alla convivenza se detta convivenza è superiore a due anni e comunque, non oltre i cinque anni. Inoltre, se nella stessa casa comune, coabitano con il convivente di fatto superstite, figli minori o figli disabili dello stesso, il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza, per un periodo non inferiore a tre anni. Questo quanto stabilisce l’art. 1 comma 42 della legge 76/2016. E tutto ciò anche in presenza di eredi. Si ritiene che il tempo stabilito dalla legge sia ragionevolmente sufficiente a consentire al convivente di fatto superstite, di trovare una altra soluzione abitativa, di fronte alle “pretese restitutorie” degli eredi del defunto. Il diritto di abitazione prevede ovviamente anche il diritto di uso dei mobili che la arredano se di proprietà del defunto, ovvero di proprietà comune. Il diritto di abitazione nella casa comune di residenza, tuttavia viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella stessa, o in caso di matrimonio, di unione civile o di una nuova convivenza di fatto. Questo perché, intraprendere da parte del convivente di fatto superstite, un nuovo progetto di vita, è del tutto incompatibile con l’esigenza di tutela, connessa al precedente rapporto sentimentale. Ma qual è la natura del diritto di abitazione spettante al convivente superstite? Non si tratta di un diritto reale, qual è quello riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico al coniuge superstite, bensì di un mero diritto personale di godimento che il convivente di fatto superstite acquista in forza della così detta “ comunanza di vita ” attuata, tra le altre cose, anche attraverso la coabitazione nell’immobile che entrambi i conviventi avevano scelto quale comune residenza. Il convivente superstite, per tutelare il suo diritto contro pretese di terzi soggetti e cioè nel caso in cui si verifichi un’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa compiuta in suo danno da altri soggetti (ad es. gli eredi), ha la possibilità di avvalersi della così detta tutela possessoria (cfr. Cassazione, sezione II, sentenza n. 7214 del 21 marzo 2013; sezione II, sentenza n. 7 del 2 gennaio 2014). Va altresì precisato che il diritto di abitazione viene riconosciuto al convivente di fatto anche nel caso in cui la coppia non abbia precedentemente provveduto a formalizzare la propria relazione presso il Comune di residenza, ossia anche nel caso in cui non si sia recata presso l’Ufficio Anagrafe del Comune di residenza e abbia dichiarato di coabitare presso la medesima unità immobiliare con susseguente registrazione della predetta dichiarazione da parte dell’ufficio anagrafe che rilascia formalmente il certificato di convivenza. Pertanto, se la convivenza non dovesse essere stata dichiarata all’anagrafe, lo status di convivente, potrà essere riconosciuto sulla base di una mera autocertificazione prodotta dal convivente superstite, anche nel caso in cui questi non abbia la residenza anagrafica nella casa di proprietà del defunto. Significativa è la risposta della Agenzia delle Entrate del 12/10/2018 n. 37, con cui la stessa ha precisato che, per il riconoscimento del diritto di abitazione, il convivente di fatto superstite che non risiede anagraficamente nell’immobile del convivente defunto, può dimostrare il suo stato di convivente anche a mezzo di autocertificazione ai sensi dell’art. 47 del DPR 445/2000. Se hai bisogno di una consulenza in materia di diritto successorio rivolgiti al nostro studio. Avv. Sabrina Mellini

Il Bed & Breakfast è un’attività che consiste nel concedere a terzi l’uso di una o più camere del proprio appartamento verso un determinato corrispettivo e per un periodo più o meno breve, tenuto presente il particolare settore in cui tali contratti trovano applicazione e del tipo di soggiorno per lo più precario e mai stabile nel tempo. Dunque, si indica una forma di dimora particolare ed informale; la prestazione fornita consiste nel pernottamento e nella prima colazione, in ciò differenziandosi dall’affittacamere. Le prestazioni accessorie, prima tra tutte la colazione , rappresentano comunque l’elemento indispensabile non solo per configurare l’attività di B&B, ma anche per contraddistinguerla dalla normale locazione dell’alloggio, dove la persona del locatore, a differenza della prima, resta assolutamente estranea alla vita del conduttore. Si deve trattare in ogni caso di una attività a conduzione familiare, condotta cioè da privati all’interno della propria abitazione e dimora, ovvero il luogo in cui si vive abitualmente e trova disciplina prevalentemente nelle leggi regionali che, direttamente o meno, si riportano poi alla L. n. 135/2001. Il numero massimo di stanze e posti letto adibite al servizio varia a seconda della legge regionale; in genere c’è un limite di 3 stanze e 6 posti letto, ma alcune regioni ne consentono di più. Anche le superfici delle camere sono disposte dalle leggi regionali. Vanno naturalmente rispettati requisiti igienico-sanitari e bisogna essere in possesso del certificato di abitabilità e di conformità di tutti gli impianti alle norme vigenti in materia. Normalmente per aprire un B&B è sufficiente comunicare al SUAP (Sportello Unico Attività Produttive) sul cui territorio insistono le strutture e gli immobili da destinare all’attività, una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) ai sensi dell’art. 19 della L. n. 241/1990. In linea generale, per l’esercizio dell’attività di Bed & Breakfast il soggetto interessato deve essere in possesso dei seguenti requisiti: a) i requisiti previsti dal R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza); b) i requisiti previsti in materia di prevenzione incendi ai sensi del decreto del Ministro dell’Interno 9 aprile 1994 (Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la costruzione e l’esercizio delle attività ricettive turistico-alberghiere), qualora richiesti; c) i requisiti igienico-sanitari relativi alla struttura, previsti dalla normativa vigente. Il SUAP, ricevuta la segnalazione certificata di inizio attività, ne trasmette tempestivamente copia, sempre in via telematica, al Comune, all’Azienda Sanitaria Locale che esercita l’attività di vigilanza e, a fini informativi, ne trasmette altresì copia alla Provincia e all’agenzia di accoglienza e promozione turistica locale competenti per territorio. Per somministrare la prima colazione occorre presentare all’ASL competente territorialmente una Notifica sanitaria relativa alla sicurezza alimentare dei cibi messi a disposizione degli ospiti. Il modello per la notifica di inizio, variazione o cessazione dell’attività è rinvenibile sul sito internet regionale; si rappresenta che la colazione fornita deve essere composta di cibi preconfezionati poiché i B&B non sono autorizzati a preparare, manipolare e servire alimenti, salvo diverse disposizioni regionali. Dal punto di vista fiscale (secondo la risoluzione del Ministero delle Finanze n. 155 del 13 ottobre 2000) non è necessario aprire una partita IVA in quanto l’attività di B&B deve essere esercitata in modo saltuario, ed è sufficiente il codice fiscale del titolare da apporsi anche sulla ricevuta (non fiscale) che è obbligatorio rilasciare al momento del pagamento. Al fine di documentare la riscossione delle somme deve essere rilasciata una ricevuta di quietanza (anche utilizzando i blocchetti prestampati che si trovano comunemente in commercio), redatta in duplice copia, con numerazione progressiva, data di emissione, corrispettivo incassato, quantità di giorni di permanenza del cliente, timbro e firma. Sulle ricevute di importo superiore ad euro 77,47 deve essere applicata la marca da bollo da euro 2,00. Trattandosi per legge di attività saltuaria, è inoltre obbligatoria la chiusura per alcuni mesi all’anno e non sono consentiti soggiorni per più di 30 giorni consecutivi. Molti gestori di B&B decidono di incrementare le proprie entrate offrendo ai propri ospiti attività alternative come passeggiate naturalistiche, corsi di cucina e altre attività legate al territorio. Avv. Giacomo Graziano

Nuovo DDL – L. 13 dicembre 2024 n. 203 ENTRATA IN VIGORE IL 12 GENNAIO 2025 Continuando la nostra disamina tra le Novità della recente Normativa sul Collegato Lavoro, in questo articolo parleremo di: 13. Art.7 della Legge : Sospensione Decorrenza Termini degli adempimenti fiscali e contributivi per liberi professionisti. Vengono sospesi i termini relativi agli adempimenti fiscali e contributivi, nel caso di parto o di interruzione della gravidanza avvenuta oltre il terzo mese dal suo inizio. La sospensione decorre, in caso di parto, dall’ottavo mese di gestazione fino al trentesimo giorno successivo al parto; in caso di interruzione della gravidanza, fino al trentesimo giorno successivo all’interruzione medesima. Medesima sospensione si applica anche al libero professionista che sia temporaneamente impossibilitato a svolgere la sua professione, per infortunio o malattia grave, ricovero ospedaliero d’urgenza, del proprio figlio minorenne o per intervento chirurgico dello stesso e debba assistere il figlio minore. Il tutto previa trasmissione, agli Enti di riferimento che devono applicare la sospensione dei termini di decorrenza degli adempimenti, entro 15 giorni dall’evento, di certificato medico attestante tute le informazioni utili e necessarie, nonché copia dei mandati professionali assegnati al professionista, perché l’Ente applichi la sospensione predetta. 14. Art.23 della Legge : Rateizzazione debiti contributivi. Viene introdotta la possibilità per gli Enti INPS e INAIL di autorizzare la rateizzazione dei debiti contributivi che non sono ancora stati affidati alla riscossione e per i casi previsti dal Decreto del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, ancora da emanarsi, previa domanda dell’interessato e con la possibilità di effettuare fino ad un massimo 60 rate. La misura, avrà valore dal 1° gennaio 2025, e mira ad una regolarizzazione spontanea delle posizioni contributive insolute o che potrebbe diventare tali, aiutando le imprese e i datori di lavori in difficoltà economiche. 15. Art.1 della Legge : Novità in materia di Salute e Sicurezza sui Luoghi di Lavoro: La Sicurezza sul Lavoro è già ampiamente disciplinata, ma è materia che va attenzionata e tenuta sotto controllo, perché le norme non rimangano solo scritte ma applicate dalle imprese e dai lavoratori: In particolare: Lett. b): Ministero del Lavoro redigerà annualmente una relazione da fornire alle Camere sullo stato della sicurezza nei luoghi di lavoro, e dovrà prevedere anche l’indicazione di eventuali misure migliorative delle condizioni di sicurezza ancora precarie; Lett. d) punto 1.1: questa lettera estende una misura di sicurezza che già per molte imprese è un obbligo e/o è prevista nel CCNL di settore: la cosiddetta “visita pre-assuntiva”. Cioè, la possibilità per l’impresa di effettuare una visita medica con il medico competente aziendale, prima dell’assunzione, in modo da meglio valutare l’idoneità alla specifica mansione a cui il lavoratore sarebbe destinato una volta assunto. Lett. d) punto 1.3: solitamente dopo assenze dal lavoro superiori a 60 giorni, prima di riammettere il lavoratore nell’impresa, il datore è obbligato a sottoporlo a visita dal medico competente aziendale. Ebbene, con questo nuovo dettato normativo, vi è l’opportunità che tale visita se effettuarla o non effettuarla, viene lasciata alla libera valutazione del medico competente aziendale; Lett. d) punto 2.: Rimando nell’ambito della visita del medico competente aziendale, viene previsto, in modo innovativo, che, qualora il sia necessario sottoporre il lavoratore ad esami clinici e diagnostici, se il lavoratore li ha già effettuati e tali esami sono presenti nella cartella clinica del lavoratore, il medico competente può evitare di farglieli ripetere; Lett. e): Questa novità riguarda tutte quelle attività lavorative svolte in ambienti chiusi, in sotterranei o semi sotterranei, e qualora tali lavorazioni diano luogo ad emissioni nocive per il lavoratore: In tutti questi casi, per poter svolgere attività in tali luoghi, il datore di lavoro deve comunicare, con pec, all’Ispettorato del lavoro competente territorialmente, l’utilizzo dei locali e comunicando contestualmente tutta la documentazione necessaria che dimostri il rispetto dei requisiti di idonee condizioni di aerazione, illuminazione e microclima. I locali potranno essere utilizzati entro 30 giorni dall’avvenuta comunicazione, salvo casi espressi di divieto. La documentazione da produrre è indicata in apposita Circolare dello stesso Ispettorato – INL, che alleghiamo per Vs. conoscenza, con anche l’Allegato IV del D. Lgs. 81/2008 in materia di requisiti dei luoghi di lavoro. Avv. Vincenza D'Anna